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Un dibattito sulla crescita kafkiano e surreale

Cinque questioni complesse da dipanare

Siamo di fronte ad una questione tutta politica, legata alle sorti del governo

di Enrico Cisnetto - 11 febbraio 2011

Kafkiano, surreale. Appare così, ai miei occhi, il dibattito intorno alla “frustata” che il governo vorrebbe dare all’economia. E che ha ben presto preso i contorni di uno scontro, politico e personale – vero o presunto che sia – tra Berlusconi “cicala” e Tremonti “formica”. E sì, perché c’è una certa contraddizione nel fatto che la gran parte di coloro che vorrebbero “dar da bere al cavallo” sono noti non per essere degli irriducibili ammiratori di Keynes, ma per le loro posizioni liberiste, in base alle quali dovrebbero invece sposare la scelta prioritaria del ministro del Tesoro di tenere sotto controllo i conti pubblici. Viceversa, il “contestato” si è autodefinito “colbertista”, e dunque secondo la vulgata dovrebbe essere “spendaccione”.

Insomma, capirei se a Tremonti si contestasse di aver tagliato troppo poco la spesa pubblica, e quindi il deficit, o di non essere intervenuto sul debito (critica che invece fanno, con una certa coerenza concettuale pur sbagliando nel merito, i sostenitori della “patrimoniale”, che liberisti non sono). Ma imputargli da destra di essere stato poco di sinistra, stride non poco. E’ dunque del tutto evidente che siamo di fronte ad una questione tutta politica, legata alle sorti del governo e con esse della legislatura, di Berlusconi e della sua successione.

Ma le contraddizioni non finiscono qui. Per esempio, coloro che – a sinistra, ma non solo – nella prima metà della legislatura hanno criticato il fatto che il governo non abbia detto la verità agli italiani sul reale stato di salute della nostra economia e che di conseguenza non abbia fatto nulla per lo sviluppo e l’occupazione, sono gli stessi che hanno sempre fatto proposte in deficit, cioè senza indicare nessuna contropartita di tagli di spesa a copertura. Salvo poi cinguettare con Tremonti, avendolo individuato come il più agguerrito dei possibili candidati al “dopo Berlusconi”.

E, ancora, non ci sono forse in giro tanti zelig che nello stesso tempo predicano liberalizzazioni e riduzioni del carico fiscale (su persone, famiglie e imprese) e poi difendono (quantomeno nei fatti) le più truci corporazioni e bollano come affamatorie del popolo ogni ipotesi (che difatti tali rimangono) di riduzione della spesa corrente?

E, infine, non uscita un po’ di ilarità, o rabbia, vedere leghisti e convinti fautori del decentramento più spinto e articolato possibile spiegare che le norme “accentratrici” sul cosiddetto federalismo municipale servono perché ci sono troppe amministrazioni locali fuori controllo e che se i fondi europei non si spendono è perché governatori e sindaci sono degli incapaci?

Rimane il fatto, però, che questo suggestivo dibattito di metà legislatura su un proposito, crescere di più, che dovrebbe essere insito sempre e comunque in qualunque azione di qualsivoglia governo, serve almeno a mettere in evidenza cinque questioni essenziali, tra loro indissolubilmente legate. La prima riguarda la totale mancanza, nella classe dirigente, di un “progetto paese” che ogni forza politica e ogni leader degno di questa definizione dovrebbe sempre avere in testa.

Un assenza che rende inutile e per molti versi obliqua la discussione su come rilanciare l’economia, visto che qualunque decisione venisse presa – e per ora, per fortuna, non ne è stata presa nessuna – sarebbe priva del supporto di un’adeguata analisi preventiva della realtà e risulterebbe sganciata da qualunque disegno strategico. La seconda è conseguenza della prima: se per evitare scelte casuali è prioritario sapere “dove siamo e dove intendiamo andare”, allora occorre che il confronto politico si sposti su questo.

E perché ciò accada, bisogna essere consapevoli fino in fondo che è indispensabile l’abbandono del quadro politico bipolare derivante dalla legge elettorale maggioritaria, a favore di uno aggregativo stile “grande coalizione” favorito da un meccanismo di voto di tipo tedesco. Per poi, auspicabilmente, tornare a dividersi, ma solo dopo che si sia definito un “comune sentire”.

La terza questione – su questo ha pienamente ragione Tremonti, che ne ha fatto il must – è che l’Italia non ha più alcun margine di autonomia rispetto all’Europa. Le politiche economiche non solo devono essere concertate a Bruxelles, ma di fatto si fanno a Berlino. E di questo avremo lampante contezza tra marzo e aprile, quando verranno fissate le nuove regole Ue. Da qui a prendere atto che non avremo più un centesimo da spendere se non una parte dei risparmi di spesa realizzati (perché l’altra dovrà essere utilizzata per sistemare i conti pubblici), il passo è brevissimo.

Ed è questa la quarta di quella che dovrebbero essere le nostre certezze odierne: se si vuole investire – e bisogna farlo, da solo il cavallo non corre – occorre realizzare quelle riforme strutturali fin qui evitate (previdenza, sanità, enti locali, ecc.). La qual cosa comporta, sia per ragioni di necessaria semplificazione sia per velocizzare le decisioni, di andare nella direzione opposta a quella del decentramento. E questa è la quinta e ultima questione: con il federalismo lo sviluppo non si realizza.

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