"Stati generali" per uscire dal declino
Ci vuole altro
Serve un sistema Paese per rilanciare la crescitadi Enrico Cisnetto - 09 maggio 2011
Ci vuol altro. Tra venerdì, con lo sciopero generale indetto dalla sola Cgil di Susanna Camusso, e sabato, con le assise di Bergamo della Confindustria di Emma Marcegaglia, le parti sociali più rappresentative del Paese hanno dato una risposta alla politica economica del governo, da entrambe giudicata, seppur con toni diversi, insufficiente. Ma se è vero che il “decreto sviluppo” varato dal Governo non sembra quella “frustata” all’economia che sarebbe necessaria, bensì poco più di un solletico, altrettanto vero è che da Cgil e Confindustria non arrivano ricette più credibili.
Che ci voglia più crescita è cosa certa. Nei 15 anni che dividono la fine della Prima Repubblica e il 2007, data di inizio della crisi finanziaria mondiale, l’Italia ha perso un punto di pil all’anno nei confronti della media Ue e 2,3 punti rispetto agli Stati Uniti. Totale: 15 e 35 punti di pil, cioè in valore assoluto oltre 200 e oltre 500 miliardi di euro. Con questo fardello abbiamo approcciato la recessione, che oltretutto per noi è stata così pesante da procurare un danno alla nostra struttura produttiva che la Confindustria ha definito “permanente”, cioè difficilmente recuperabile.
Ora il tasso di crescita è ancorato ad uno striminzito 1%, e lo stesso governo prevede sia così almeno fino al 2014. Mentre per aggiustare le cose e tentare di agganciare la locomotiva tedesca – non si dice quella asiatica e degli altri paesi emergenti – bisognerebbe stare al 2% e oltre. Ma nelle condizioni date della nostra finanza pubblica – e da cui molti critici del ministro Tremonti pretendono di prescindere quando gli chiedono di mettere mano al portafoglio – l’unico modo per fare quegli investimenti che servirebbero, sarebbe quello di tagliare fette importanti di spesa pubblica corrente. Obiettivo raggiungibile solo per mezzo di alcuni grandi riforme strutturali.
Le quali richiedono non solo un grado di coesione della maggioranza e una sua solidità programmatica che non c’è oggi come non c’è stata mai, né con Berlusconi né con Prodi, ma anche un atteggiamento costruttivo da parte dell’opposizione e delle forze sociali. Cioè occorre un “sistema politico” e un “sistema paese” completamente diversi da quelli che negli ultimi 17 anni hanno preso il nome di Seconda Repubblica.
Ora la domanda è: lo sciopero della Cgil, da un lato, e la rivendicazione degli imprenditori di essere gli unici a tenere in piedi l’Italia, dall’altro, servono a creare le condizioni di un cambiamento virtuoso? Si dirà: è già importante che lo chiedano, il cambio di passo. Vero. Ma non basta. Non basta la piazza che rivendica più lavoro e meno precarietà, non basta la Marcegaglia che propone la privatizzazione dell’Ice e altre cose che, se fossero state proposte dal governo la Confindustria le avrebbe bollate come “utili ma per nulla sufficienti”. Vediamo di approfondire, partendo prima dalla Camusso.
I numeri dell’adesione allo sciopero “unilaterale”, anche prendendo per buoni quelli del sindacato, non servono a mascherare il fallimento politico di una mobilitazione dei lavoratori che conferma quanto la stessa Camusso ha ammesso con grande onestà intellettuale, e cioè che la Cgil è ancora in un angolo. Le ragioni sono diverse. Il primo motivo si chiama Fiom. E in particolare la decisione dei lavoratori dell’ex Bertone di Torino, suoi iscritti, che votando sì (con Cisl e Uil) al referendum sulle proposte della Fiat l’hanno clamorosamente sconfessata. La Camusso non ha avuto il coraggio di porre l’aut-aut a Landini e compagni, e così al suo posto l’hanno fatto i lavoratori, quando sono stati messi di fronte alla necessità di scegliere tra una posizione ideologica e una pragmatica linea di difesa dei loro posti.
Il secondo motivo lo ha spiegato con la consueta lucidità Emanuele Macaluso: all’intera società italiana quei cortei hanno lasciato solo il cattivo ricordo dei disagi procurati, nient’altro. Perché non basta indicare degli obiettivi per vederne i frutti. E il fatto che la Cgil si ostini a scaricare le responsabilità solo sul governo Berlusconi, e non sull’intero sistema politico, e solo sulla Confindustria, senza un accenno di autocritica sul ruolo frenante e spesso addirittura anti-storico di una parte del sindacato, la dice lunga del perché la sua analisi e, soprattutto, la sua mobilitazione priva di sbocco, può anche portare in piazza tanta gente (molti studenti e pensionati, peraltro) ma non incide.
Il presidente della Repubblica, richiamando il valore dell’unità sindacale, ha poi messo un altro tassello a questa ricostruzione del perché lo sciopero è politicamente fallito: la rottura permanente con Cisl e Uil. Va dato atto alla Camusso di averci provato, con Bonanni e Angeletti. Ma altresì va rimproverata di non aver perseverato. Non tanto nel tentativo di ricostruire l’unità – modulo basato sul “diritto di veto”, non più recuperabile – quanto di ridefinire una modalità di dialogo e convivenza dialettica che evitando di scimmiottare il bipolarismo armato della politica, consenta al sindacato di sinistra e a quelli più moderati e riformisti di prendere posizioni diverse, e financo di firmare contratti separati, senza che questo significhi rottura totale e si traduca in un’occasione per prestare il fianco alla violenza.
Ma qui si evidenzia anche il limite dell’azione di Confindustria, che proprio mentre sembra farsi “partito di governo”, manca di dire perché le riforme non si fanno. Sia chiaro, l’uscita del ministro Calderoli, che l’ha definita “una Cgil degli oligarchi”, è fuori luogo. Se Marcegaglia sbaglia è per difetto, non per eccesso. Non può eludere, asserendo non sia affar suo, la questione del bipolarismo che non funziona, specie perché a suo tempo appoggiando il referendum Segni diede un contributo decisivo all’affermazione di un maggioritario senza fondamenta. Se si vogliono le grandi riforme strutturali che trasformino grandi quote di spesa pubblica in investimenti per la crescita, occorre lanciare un progetto rifondativo del Paese, chiamare gli “stati generali” della Terza Repubblica.
È l’unico modo per uscire dalla palude di un paese in declino. Il resto è soltanto inutile recriminazione.
Che ci voglia più crescita è cosa certa. Nei 15 anni che dividono la fine della Prima Repubblica e il 2007, data di inizio della crisi finanziaria mondiale, l’Italia ha perso un punto di pil all’anno nei confronti della media Ue e 2,3 punti rispetto agli Stati Uniti. Totale: 15 e 35 punti di pil, cioè in valore assoluto oltre 200 e oltre 500 miliardi di euro. Con questo fardello abbiamo approcciato la recessione, che oltretutto per noi è stata così pesante da procurare un danno alla nostra struttura produttiva che la Confindustria ha definito “permanente”, cioè difficilmente recuperabile.
Ora il tasso di crescita è ancorato ad uno striminzito 1%, e lo stesso governo prevede sia così almeno fino al 2014. Mentre per aggiustare le cose e tentare di agganciare la locomotiva tedesca – non si dice quella asiatica e degli altri paesi emergenti – bisognerebbe stare al 2% e oltre. Ma nelle condizioni date della nostra finanza pubblica – e da cui molti critici del ministro Tremonti pretendono di prescindere quando gli chiedono di mettere mano al portafoglio – l’unico modo per fare quegli investimenti che servirebbero, sarebbe quello di tagliare fette importanti di spesa pubblica corrente. Obiettivo raggiungibile solo per mezzo di alcuni grandi riforme strutturali.
Le quali richiedono non solo un grado di coesione della maggioranza e una sua solidità programmatica che non c’è oggi come non c’è stata mai, né con Berlusconi né con Prodi, ma anche un atteggiamento costruttivo da parte dell’opposizione e delle forze sociali. Cioè occorre un “sistema politico” e un “sistema paese” completamente diversi da quelli che negli ultimi 17 anni hanno preso il nome di Seconda Repubblica.
Ora la domanda è: lo sciopero della Cgil, da un lato, e la rivendicazione degli imprenditori di essere gli unici a tenere in piedi l’Italia, dall’altro, servono a creare le condizioni di un cambiamento virtuoso? Si dirà: è già importante che lo chiedano, il cambio di passo. Vero. Ma non basta. Non basta la piazza che rivendica più lavoro e meno precarietà, non basta la Marcegaglia che propone la privatizzazione dell’Ice e altre cose che, se fossero state proposte dal governo la Confindustria le avrebbe bollate come “utili ma per nulla sufficienti”. Vediamo di approfondire, partendo prima dalla Camusso.
I numeri dell’adesione allo sciopero “unilaterale”, anche prendendo per buoni quelli del sindacato, non servono a mascherare il fallimento politico di una mobilitazione dei lavoratori che conferma quanto la stessa Camusso ha ammesso con grande onestà intellettuale, e cioè che la Cgil è ancora in un angolo. Le ragioni sono diverse. Il primo motivo si chiama Fiom. E in particolare la decisione dei lavoratori dell’ex Bertone di Torino, suoi iscritti, che votando sì (con Cisl e Uil) al referendum sulle proposte della Fiat l’hanno clamorosamente sconfessata. La Camusso non ha avuto il coraggio di porre l’aut-aut a Landini e compagni, e così al suo posto l’hanno fatto i lavoratori, quando sono stati messi di fronte alla necessità di scegliere tra una posizione ideologica e una pragmatica linea di difesa dei loro posti.
Il secondo motivo lo ha spiegato con la consueta lucidità Emanuele Macaluso: all’intera società italiana quei cortei hanno lasciato solo il cattivo ricordo dei disagi procurati, nient’altro. Perché non basta indicare degli obiettivi per vederne i frutti. E il fatto che la Cgil si ostini a scaricare le responsabilità solo sul governo Berlusconi, e non sull’intero sistema politico, e solo sulla Confindustria, senza un accenno di autocritica sul ruolo frenante e spesso addirittura anti-storico di una parte del sindacato, la dice lunga del perché la sua analisi e, soprattutto, la sua mobilitazione priva di sbocco, può anche portare in piazza tanta gente (molti studenti e pensionati, peraltro) ma non incide.
Il presidente della Repubblica, richiamando il valore dell’unità sindacale, ha poi messo un altro tassello a questa ricostruzione del perché lo sciopero è politicamente fallito: la rottura permanente con Cisl e Uil. Va dato atto alla Camusso di averci provato, con Bonanni e Angeletti. Ma altresì va rimproverata di non aver perseverato. Non tanto nel tentativo di ricostruire l’unità – modulo basato sul “diritto di veto”, non più recuperabile – quanto di ridefinire una modalità di dialogo e convivenza dialettica che evitando di scimmiottare il bipolarismo armato della politica, consenta al sindacato di sinistra e a quelli più moderati e riformisti di prendere posizioni diverse, e financo di firmare contratti separati, senza che questo significhi rottura totale e si traduca in un’occasione per prestare il fianco alla violenza.
Ma qui si evidenzia anche il limite dell’azione di Confindustria, che proprio mentre sembra farsi “partito di governo”, manca di dire perché le riforme non si fanno. Sia chiaro, l’uscita del ministro Calderoli, che l’ha definita “una Cgil degli oligarchi”, è fuori luogo. Se Marcegaglia sbaglia è per difetto, non per eccesso. Non può eludere, asserendo non sia affar suo, la questione del bipolarismo che non funziona, specie perché a suo tempo appoggiando il referendum Segni diede un contributo decisivo all’affermazione di un maggioritario senza fondamenta. Se si vogliono le grandi riforme strutturali che trasformino grandi quote di spesa pubblica in investimenti per la crescita, occorre lanciare un progetto rifondativo del Paese, chiamare gli “stati generali” della Terza Repubblica.
È l’unico modo per uscire dalla palude di un paese in declino. Il resto è soltanto inutile recriminazione.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.