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Il nodo è la debolezza del sistema-paese

Chiediamoci cosa c’è da fare

Establishment italiano da ricostruire. Poco importa chi sarà il governatore, ma cosa farà

di Enrico Cisnetto - 23 dicembre 2005

Le cattive abitudini italiane sono puntuali come gli orologi svizzeri. Da giorni stiamo azzeccagarbugliando sul successore di Antonio Fazio, ma il massimo di quello che sappiamo dire intorno alla figura del nuovo Governatore della Banca d’Italia è la solita litania sulla probità, indipendenza, autorevolezza, esperienza che il candidato ideale deve avere. E poi via con identikit che, guarda caso, corrispondono sempre alla persona che si vuole sponsorizzare. Nulla, invece, sui compiti veri che attendono il designato, e quindi, in definitiva, su come dovrà riorganizzarsi il sistema bancario dopo lo tsunami che lo sta colpendo. Il riflesso condizionato della “questione morale”, che è scattato per via della vicenda Fiorani e che tra l’altro sta riproducendo clima e condizioni del 1992-94, fa velo rispetto alla questione centrale che sta di fronte al Paese e da cui la politica fugge come dalla peste: il declino del nostro sistema economico, tanto industriale quanto finanziario, e la necessità di una risposta strategica all’altezza della sfida epocale che dobbiamo affrontare. Francamente, l’unico che sembra aver capito che la scelta del nuovo Governatore non è questione né tecnica, per la quale tanto varrebbe assoldare un head hunter, né di amicalità, unica logica invece con cui si sta muovendo la politica, è il mio amico Savino Pezzotta. “No a un governatore liberista”, ha detto in queste ore il capo della Cisl, e io condivido il suo giudizio, se con questo intende dire che occorre evitare una banca centrale succube, o addirittura partecipe, di quel “pensiero unico”, Giulio Tremonti lo ha definito “mercatista”, che scambia l’etica con la politica e che immagina la politica come semplice luogo dove si definiscono le regole. Già, perchè come ha scritto oggi Giuliano Ferrara su Panorama, qui la posta in gioco è la capacità del Paese di costruire un blocco di interessi (“soldi e politica”) che si faccia rispettare sul mercato e sulla scena pubblica, la qual cosa in tempi di globalizzazione non è più una partita che si gioca sul campetto di casa, ma almeno su scala europea.

Il che significa la (ri)costruzione di un establishment – élite politiche e poteri economici – basato sulla comune condivisione di un “progetto paese”. Si tratta di un processo che non si è per nulla avviato, e che la fine della Seconda Repubblica con “spargimento di sangue” – secondo la macabra ma efficace definizione di Francesco Cossiga – a cui si assiste in queste ore rimanda a dopo le elezioni. Per questo l’intestardimento di Fazio a restare al suo posto fino alle tardive dimissioni dell’altro giorno è stato esiziale per l’Italia, oltre che per lui e per la banca centrale. Bancopoli, infatti, è piovuta addosso ad un Paese che vive immerso nell’ipocrisia dai tempi di Tangentopoli, e che quindi scambia il tema alto e nobile della determinazione di poteri che lo sappiano guidare con quello melmoso dell’intreccio tra affari e politica. Così, l’apertura di un nuovo fronte mediatico-giudiziario ha ancora una volta distolto l’attenzione dai problemi veri, che non sono la patologia del malaffare, ma la totale destrutturazione del nostro sistema economico e il fallimento certificato di quello politico. E ora ci troviamo a dover scegliere una figura essenziale come quella del governatore della Banca d’Italia – salvo volerla svuotare di significato, ma mi domando a favore di chi se non della debolezza complessiva del sistema-paese –senza aver minimamente discusso di quale ruolo devono avere le banche in un capitalismo da rifondare quale il nostro, e prima ancora di quali assetti si deve dare un sistema creditizio ancora fragile, che ha di fronte spaventosi problemi proprietari irrisolti, tra un’italianità da difendere ma a cui mancano capitali e capitani e stranieri che portano patrimoni e (qualche volta) reputazione ma sono pronti a colonizzare.

In questo quadro, sarebbe stato meglio che il nuovo Governatore fosse scelto dopo aver maturato le opzioni strategiche di cui l’Italia ha bisogno. Ma visto che la designazione la si deve fare ora – e al punto in cui siamo, prima è meglio è – speriamo almeno che la scelta ricada su un uomo conscio che il Paese è da ricostruire e che da quella postazione il contributo sia alla diffusione della consapevolezza di come stanno le cose sia poi alla progettazione e realizzazione della rinascita può rivelarsi decisivo.

Pubblicato sul Foglio del 23 dicembre 2005

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