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I due principali partiti continuano con lotte intestine, segno evidente che il bipolarismo è ancora armato

di Enrico Cisnetto - 25 febbraio 2012

Mancano 13 mesi alla fine della legislatura e finalmente si comincia a ragionare su cosa succederà “dopo”. Per la verità, la discussione è ancora acerba e poco trasparente, specie sulla riforma elettorale (tanto che sono in molti ad essere scettici sull’effettiva possibilità che si faccia). Ed è condizionata dall’assoluta confusione che regna tanto nel centro-destra – dove la separazione tra Pdl e Lega rischia di diventare un definitivo divorzio anche per via dello scontro Bossi-Maroni, mentre nel partito di maggioranza (ex?) si registra il minimo storico nei rapporti tra Berlusconi e Alfano e si fa strada l’idea di non presentarsi alle prossime alle prossime amministrative, se non sotto le mentite spoglie di liste civiche, per evitare di intestarsi una sconfitta che potrebbe rivelarsi clamorosa – quanto nel centro-sinistra, che proprio mentre ha dalla sua i sondaggi, è costretto a constatare che la sua affermazione è a scapito del Pd (Genova ha fatto traboccare il vaso), cosa che induce inevitabilmente Bersani a rispolverare la foto di Vasto pur sapendo di correre il rischio di una diaspora nel partito. Tuttavia, una cosa pare acquisita: la consapevolezza da parte di tutti o quasi che alle prossime elezioni politiche occorrerà riformulare l’offerta politica. Poi c’è chi, come Berlusconi, ne fa derivare come conseguenza l’idea che sia sufficiente un semplice restyling (cambiare il nome alla lista e qualche faccia nuova, pur selezionata con il vecchio metodo cooptativo). E chi, invece, si contenta di dire “andiamo avanti con Monti”, come se questo governo potesse riprendere il suo posto dopo quella che assumerebbe i contorni di una fastidiosa e inutile consultazione elettorale, così, senza colpo ferire. E’ evidente, invece, che occorre ridefinire offerta e legge elettorale sulla base del sistema politico che s’intende realizzare. E qui casca l’asino. Un po’ perché il dibattito fin lì non arriva, fermandosi ben prima. Un po’ perché torna la vecchia, stucchevole discussione su “bipolarismo sì, bipolarismo no”, del tutto astratta rispetto al giudizio sulla concreta esperienza della Seconda Repubblica, che certo non aiuta a definire i passaggi di quella che se non fosse una fase di transito verso una nuova Repubblica vorrebbe dire che si dovrebbe assistere dopo la parentesi Monti al disastroso ritorno verso il recente passato. Tra l’altro, sta assumendo i connotati della falsità la querelle sull’incompatibilità tra metodo proporzionale di calcolo dei voti e bipolarismo.

Non è affatto vero che una legge elettorale di questo tipo impedirebbe la preventiva indicazione agli elettori delle coalizioni di governo che s’intendono costruire, e tanto meno può fare una simile affermazione chi continua a difendere un sistema bipolare in cui le coalizioni sono così eterogenee e talmente condizionate dalle ali che contengono entrambe al proprio interno sia la maggioranza che l’opposizione (i cosiddetti partiti di lotta e di governo). Ma tant’è, il vecchio vizio del confronto tutto ideologico prevale. A costoro, comunque, si consiglia la lettura dell’intervista che Luciano Violante ha rilasciato all’Unità del 15 febbraio, emblematicamente titolata “Basta caravanserragli incapaci di governare. La legge elettorale non deve produrre coalizioni forzose, ragioniamo su un proporzionale corretto”. Tradotto: il sistema tedesco. Che se fosse stato adottato fin dal 1994 ci avrebbe evitato una sciagura del bipolarismo armato basato sulla contrapposizione pro-contro Berlusconi, cioè ci avrebbe evitato tanto il Cavaliere quanto la gioiosa macchina da guerra di Occhetto.

Dunque, quale offerta e legge elettorale occorrono per quale sistema politico? Marco Follini ha giustamente notato sul Riformista che l’approccio nobile al problema sarebbe quello del “soffio magico dello spirito costituente”, anche se ha subito aggiunto che sarebbe poco realista perseguirlo. Può darsi, i fatti fin qui accaduti gli danno ragione. Ma proprio perché Monti rappresenta una discontinuità assoluta e proprio perché occorre individuare metodi e mezzi per darle continuità ed evitare che la parentesi si chiuda, l’idea di una fase (ri)Costituente sarebbe la migliore, e non solo perché “alta” ma anche e soprattutto perché maledettamente necessaria. Ma se proprio dobbiamo “volare bassi”, almeno facciamolo mettendo mano ad una complesso di provvedimenti (proporzionale con sbarramento al 5%, sfiducia costruttiva, fine del bicameralismo e revisione profonda dei regolamenti parlamentari, poteri di nomina e revoca dei ministri al premier), che comincino a delineare il profilo istituzionale della Terza Repubblica. Già, ma con quali forze politiche si realizza tutto questo? Oggi, a bocce ferme, sarebbe controproducente riproporre partiti e coalizioni che hanno caratterizzato una stagione politica ormai chiusa, e che sarebbero a cittadini con il loro voto (o meglio, non voto) a chiudere se osasse ripresentarsi alle elezioni, anche dopo un eventuale maquillage. E sarebbe inutile definire un qualche coinvolgimento di chi sta al governo (Monti, Passera), anche perché gli interessati non sarebbero disposti a farsi trascinare prima della fine della legislatura. Invece, è facendo il lavoro di definizione delle riforme prima indicate che si possono e debbono riformattare partiti e alleanze e definire gli scenari del futuro. Per esempio, se s’intende andare – come è largamente auspicabile – nella direzione di una “grande coalizione”, è bene che lo si dica fin d’ora e se ne delinei agli occhi degli elettori i contorni e gli obiettivi, con trasparenza. Si cominci questo lavoro, dentro e fuori il parlamento, tra forze politiche esistenti e soggetti della società civile e dell’associazionismo intenzionati a giocarsi la partita della Terza Repubblica. Tredici mesi passano in un baleno.

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