I mal di testa del Belpaese
Che confusione...
L'inflazione in crescita effetto otticodi Enrico Cisnetto - 02 marzo 2011
C’è da farsi venire il mal di testa. Mai come in questa fase le notizie che arrivano dal fronte caldo dell’economia, nostrana e internazionale, paiono contraddittorie e confondono gli italiani, tanto più se s’incrociano con quelle, ancor più bollenti, provenienti da scenari geopolitici che definire in movimento è poco. Ieri, per esempio, abbiamo saputo dall’Istat che nel 2010 il nostro pil, cioè il misuratore della ricchezza prodotta ogni anno, è cresciuto dell’1,3%, dopo che nel biennio maledetto 2008-2009 la recessione ci aveva portato via ben il 6,3%.
Ma solo pochi giorni fa, il 15 febbraio per l’esattezza, lo stesso Istat ci aveva comunicato che la crescita era stata dell’1,1%. Bene, naturalmente, che il dato sia migliore. Ma cosa può essere cambiato in sole due settimane? Due decimi di punto sembrano poca cosa, ma in realtà la differenza è del 18%. Non solo: il risultato di +1,3% si allontana dalla previsione di una crescita di un solo punto o addirittura dello 0,9% che quasi tutti i centri e le istituzioni economiche facevano, e invece ci consente di accorciare a soli 4 decimi la differenza con la media europea, fissata nel +1,7%. Ripeto, meglio così – nella speranza che il dato di ieri rimanga definitivo – e bene ha fatto il ministro Tremonti a sottolineare che il dato qualche conforto lo fornisce, ma certo un po’ di confusione nella testa persino degli economisti è inevitabile.
Resta invece inalterata la valutazione di fondo: per l’Italia e per Eurolandia avere un tasso di sviluppo dell’uno virgola non è sufficiente, sia perché nel passato eravamo abituati ad un altro ritmo, sia perché stiamo troppo distanti dai livelli non solo dei paesi emergenti, asiatici in particolare, ma anche degli stessi Stati Uniti, che pur tra mille contraddizioni e difficoltà – poche delle ragioni della crisi finanziaria mondiale che negli Usa è nata sono state fin qui rimosse – marciano comunque più vicini al 3% che al 2% di crescita.
Ma se, decimali a parte, cresciamo troppo poco, come mai sempre ieri ci arriva tra capo e collo l’allarme inflazione, arrivata al 2,4%? Altro mal di testa. La spiegazione c’è, naturalmente: è tutta inflazione importata. Cioè dovuta non ad un aumento dei consumi, che infatti rimangono piatti, ma un pesante rincaro dei prezzi dell’energia e dei prodotti agricoli. Di cui, specie nel primo caso, siamo fortemente dipendenti dall’estero. Basta prendere la benzina per capire cosa stia succedendo: a febbraio il rincaro rispetto ad un anno prima è stato dell’11,8%. E così il gasolio da riscaldamento. Una botta micidiale. Eppure se uno guarda la Cina, tanto per fare un esempio, vede che l’inflazione è al 6%, e di conseguenza potrebbe essere indotto a rallegrarsi: stanno peggio di noi.
Sbagliato. La loro è un’inflazione “buona”, cioè dovuta ad un surriscaldamento dell’economia, che continua a crescere ad un ritmo superiore al 10% annuo, come se la crisi mondiale non ci fosse mai stata. Mentre la nostra è “cattiva”, perché si accompagna ad una certa stagnazione.
Tant’è vero che gli economisti hanno coniato il termine “stagflazione”, proprio per indicare una congiuntura caratterizzata da poca crescita e tanta inflazione. Per fortuna non ci siamo ancora, perché la curva del pil non è proprio piatta e quell’inflazione non è esplosiva. Ma di mezzo c’è lo scenario internazionale, e in particolare quello del Mediterraneo, che oltre a produrre instabilità politica e militare, spinge all’insù i prezzi delle materie prime, e in particolare di gas petrolio e gas (che già da tempo salivano per loro conto). Cosa potrà succedere? Non è difficile immaginare che le conseguenze saranno meno crescita e più inflazione.
Cioè stagflazione. La quale non può che procurare maggiore disoccupazione. E qui siamo ad un altro motivo di emicrania. Sempre ieri l’Istat ci ha detto che la nostra quota di disoccupati è pari all’8,6%, contro il 9,9% dell’Europa dell’euro, ma nello stesso tempo che quella giovanile è al record storico del 29,4%, dieci punti in più di Eurolandia. Dunque, conta maggiormente il primo o il secondo dato?
E perché c’è questa asimmetria? La spiegazione l’aveva già data tempo fa Bankitalia, quando ha calcolato che comprendendo una quota di cassintegrati destinati a non rientrare in aziende che purtroppo finiranno per chiudere o ridimensionarsi e la cosiddetta area degli scoraggiati (quelli che immaginando di non trovare più lavoro non s’iscrivono nelle liste di collocamento) la disoccupazione da noi sarebbe dell’11%, cioè un punto abbondante in più dell’Europa. E il dato di un giovane su tre che è a spasso lo sta a testimoniare.
Così come dimostra la fragilità del nostro mercato del lavoro il fatto che il tasso di occupazione – cioè quanti lavorano tra coloro che sono nella fascia di età tra i 16 e i 64 anni – è sceso di un punto e mezzo al 56,7%, ben distante sia dalla media Ue sia dalla locomotiva d’Europa, la Germania, che proprio ieri ha celebrato la discesa del numero di disoccupati a 3 milioni, il livello più basso dal 1992. Motivo in più per prendere un analgesico. E, suggerisco, tenetevene una buona scorta a portata di mano per i prossimi tempi.
Ma solo pochi giorni fa, il 15 febbraio per l’esattezza, lo stesso Istat ci aveva comunicato che la crescita era stata dell’1,1%. Bene, naturalmente, che il dato sia migliore. Ma cosa può essere cambiato in sole due settimane? Due decimi di punto sembrano poca cosa, ma in realtà la differenza è del 18%. Non solo: il risultato di +1,3% si allontana dalla previsione di una crescita di un solo punto o addirittura dello 0,9% che quasi tutti i centri e le istituzioni economiche facevano, e invece ci consente di accorciare a soli 4 decimi la differenza con la media europea, fissata nel +1,7%. Ripeto, meglio così – nella speranza che il dato di ieri rimanga definitivo – e bene ha fatto il ministro Tremonti a sottolineare che il dato qualche conforto lo fornisce, ma certo un po’ di confusione nella testa persino degli economisti è inevitabile.
Resta invece inalterata la valutazione di fondo: per l’Italia e per Eurolandia avere un tasso di sviluppo dell’uno virgola non è sufficiente, sia perché nel passato eravamo abituati ad un altro ritmo, sia perché stiamo troppo distanti dai livelli non solo dei paesi emergenti, asiatici in particolare, ma anche degli stessi Stati Uniti, che pur tra mille contraddizioni e difficoltà – poche delle ragioni della crisi finanziaria mondiale che negli Usa è nata sono state fin qui rimosse – marciano comunque più vicini al 3% che al 2% di crescita.
Ma se, decimali a parte, cresciamo troppo poco, come mai sempre ieri ci arriva tra capo e collo l’allarme inflazione, arrivata al 2,4%? Altro mal di testa. La spiegazione c’è, naturalmente: è tutta inflazione importata. Cioè dovuta non ad un aumento dei consumi, che infatti rimangono piatti, ma un pesante rincaro dei prezzi dell’energia e dei prodotti agricoli. Di cui, specie nel primo caso, siamo fortemente dipendenti dall’estero. Basta prendere la benzina per capire cosa stia succedendo: a febbraio il rincaro rispetto ad un anno prima è stato dell’11,8%. E così il gasolio da riscaldamento. Una botta micidiale. Eppure se uno guarda la Cina, tanto per fare un esempio, vede che l’inflazione è al 6%, e di conseguenza potrebbe essere indotto a rallegrarsi: stanno peggio di noi.
Sbagliato. La loro è un’inflazione “buona”, cioè dovuta ad un surriscaldamento dell’economia, che continua a crescere ad un ritmo superiore al 10% annuo, come se la crisi mondiale non ci fosse mai stata. Mentre la nostra è “cattiva”, perché si accompagna ad una certa stagnazione.
Tant’è vero che gli economisti hanno coniato il termine “stagflazione”, proprio per indicare una congiuntura caratterizzata da poca crescita e tanta inflazione. Per fortuna non ci siamo ancora, perché la curva del pil non è proprio piatta e quell’inflazione non è esplosiva. Ma di mezzo c’è lo scenario internazionale, e in particolare quello del Mediterraneo, che oltre a produrre instabilità politica e militare, spinge all’insù i prezzi delle materie prime, e in particolare di gas petrolio e gas (che già da tempo salivano per loro conto). Cosa potrà succedere? Non è difficile immaginare che le conseguenze saranno meno crescita e più inflazione.
Cioè stagflazione. La quale non può che procurare maggiore disoccupazione. E qui siamo ad un altro motivo di emicrania. Sempre ieri l’Istat ci ha detto che la nostra quota di disoccupati è pari all’8,6%, contro il 9,9% dell’Europa dell’euro, ma nello stesso tempo che quella giovanile è al record storico del 29,4%, dieci punti in più di Eurolandia. Dunque, conta maggiormente il primo o il secondo dato?
E perché c’è questa asimmetria? La spiegazione l’aveva già data tempo fa Bankitalia, quando ha calcolato che comprendendo una quota di cassintegrati destinati a non rientrare in aziende che purtroppo finiranno per chiudere o ridimensionarsi e la cosiddetta area degli scoraggiati (quelli che immaginando di non trovare più lavoro non s’iscrivono nelle liste di collocamento) la disoccupazione da noi sarebbe dell’11%, cioè un punto abbondante in più dell’Europa. E il dato di un giovane su tre che è a spasso lo sta a testimoniare.
Così come dimostra la fragilità del nostro mercato del lavoro il fatto che il tasso di occupazione – cioè quanti lavorano tra coloro che sono nella fascia di età tra i 16 e i 64 anni – è sceso di un punto e mezzo al 56,7%, ben distante sia dalla media Ue sia dalla locomotiva d’Europa, la Germania, che proprio ieri ha celebrato la discesa del numero di disoccupati a 3 milioni, il livello più basso dal 1992. Motivo in più per prendere un analgesico. E, suggerisco, tenetevene una buona scorta a portata di mano per i prossimi tempi.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.