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Bigliettini segreti che dimostrano poco coraggio

Casini e Veltroni, Borghezio e Caruso

Il nostro bipolarismo è un disastro, ma i leader se ne accorgono solo se ci vanno di mezzo

di Davide Giacalone - 13 febbraio 2006

Casini e Veltroni hanno ragione, quindi torto marcio. Si ritrovano uno accanto all’altro, nel corso di una cerimonia. Nullafacenti alla presidenza si scambiano dei bigliettini (poi lasciati lì, e tanati da Edoardo Sassi, che ne ha fatto un articolo per il Corriere della Sera). Dapprima considerazioni amene sui sondaggi, poi arrivano al dunque: con gente come Caruso e Borghezio, annota Veltroni, non si va da nessuna parte; proprio così, risponde Casini, non ci resta che attendere le elezioni e poi valutare il da farsi. Che a nessuno sfuggano l’importanza e la profondità del dialogo.

I due convengono su un concetto che a noi è capitato di ripetere infinite volte: il bipolarismo all’italiana è un disastro, perché premiando non il partito che prende più voti, bensì lo schieramento con più suffragi (e questo vale sia con la vecchia che con la nuova legge elettorale), spinge ciascuno dei poli ad imbarcare tutto l’imbarcabile pur di non perdere. Capita, però, che quel che serve per il giorno delle elezioni impedisce, il giorno dopo, di governare. Ha ragione, quindi, Veltroni: se vai al governo con il voto di un Caruso, o con quello di un Borghezio, che in sistemi elettorali appena più razionali sarebbero confinati alla rappresentanza del folklore, poi o non governi o entri in crisi.

I due, però, non sono dei turisti per caso della politica, e la strada che scelgono è la peggiore possibile: Casini mette nel conto che il centro-destra perderà le elezioni, quindi si prepara a sganciarsi e ritesse il dialogo con i “ragionevoli” dell’altra sponda; Veltroni mette nel conto che il governo Prodi durerà poco e non governerà, dilaniato dalle contraddizioni interne, quindi già pensa alla maggioranza che lo sostituirà. Tutti e due festeggerebbero volentieri un pareggio, che, nella versione reale, sarebbe una maggioranza diversa fra Camera e Senato. Così facendo, però, usano le alate parole dell’interesse nazionale, ma si dimostrano dei meschini.

Veltroni era segretario del più grande partito della sinistra quando questo si diresse al disastro elettorale, ed abbandonò la barca per attaccarsi al Campidoglio (dove ha dimostrato non comuni doti mediane e mediatrici). Anziché intartufarsi allora e lamentarsi oggi, avrebbe dovuto fare quello che fanno tutti i partiti che perdono nelle democrazie che funzionano: porre il problema di un programma e di un’alleanza non commestibili (e che continuano a non essere commestibili). Il trauma, lo strappo, la voglia di cambiare e ripartire, si sarebbero dovuti affermare allora, nel 2001, senza attendere, cinque anni dopo, di ritrovarsi con gli stessi candidati di dieci anni prima, col sovrappiù demenziale di Caruso.

Casini avrebbe dovuto porre il problema della condotta del governo a partire dallo stesso 2001, non far finta d’esser diventato un “uomo delle istituzioni” (queste sono cose che decide la storia, non quattro amichetti compiacenti), ritagliandosi uno spazio di stampo quirinalizio e lasciando che Follini alimentasse, in ritardo e malamente, le illusioni di uno strappo. La politica si fa quando si è in vita, ed in buona salute, non ad un passo dalla fine.

Se così si fossero comportati, Casini e Veltroni, noi ci saremmo convinti che due importanti leader politici stavano pensando alle sorti del Paese, naturalmente per far valere le loro convinzioni. Comportandosi così, invece, dicendosi in segreto quel che noi scriviamo, isolati e negletti, da molti anni, ci confermano l’impressione che stiano pensando alle proprie chiappe. Tema rilevante, per i proprietari delle medesime, ma poco avvincente per tutti gli altri.

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