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Lettera aperta al ministro dell’Economia

Caro Tps, le scrivo...

Padoa-Schioppa all’assemblea dell’Abi è stato encomiabile. Ma serve anche la politica

di Enrico Cisnetto - 13 luglio 2007

Egregio Signor Ministro, mentre l’attenzione generale si è rivolta ai moniti che, nel corso dell’assemblea dell’Abi, il Governatore Draghi ha rivolto alle banche, e a quella parte del Suo discorso in cui pure Lei tirava le orecchie ai banchieri, io preferisco soffermarmi sulla cruda descrizione della realtà italiana che in quella sede Ella ha voluto fornire. Ero in sala ad ascoltarLa, e debbo confessarLe che la mia prima reazione è stata di sollievo: finalmente una voce autorevole – personalmente e istituzionalmente – che condivide l’analisi sulla condizione di declino del Paese. Declino per gli errori commessi in questi 15 anni in cui mentre noi consumavamo il fasto delle miserie nostrane, il mondo cambiava con una rapidità che mai si era verificata prima nella storia dell’uomo. E declino per la persistente miopia nell’opporsi al cambiamento di cui è affetta gran parte della società, quella civile (o reale che dir si voglia) non meno di quella politica. Certo, Lei non ha usato la parola declino, ma il quadro – veritiero – che ha tracciato descrivendo l’Italia come un’azienda indebitata, sottocapitalizzata (di risorse materiali e di beni immateriali) e che perde posizioni nel mondo, non credo possa trovare miglior sintesi di quella.

Insomma, in quel “perchè occorre allungare lo sguardo” mi ci sono ritrovato in pieno. Tanto che, al termine dell’assemblea dell’Abi, ho avuto modo di soffermarmi con alcuni interlocutori che criticavano il Suo intervento, per difenderne il valore. Difesa, Le debbo però dire con sincerità, che si fermava ad un certo punto. Lo stesso punto in cui si è fermato il Suo discorso. E già, perchè ha ragione il presidente della Confartigianato Giorgio Guerrini quando ha detto di augurarsi che “il richiamo di Padoa-Schioppa si traduca rapidamente in atti concreti”. Voglio dire che dopo un’analisi così spietata dei mali del Paese, era lecito attendersi da parte Sua una conclusione altrettanto sincera. Quale? Beh, per esempio che quelle forze ostili al cambiamento, quegli orbi che guardano solo all’oggi, quegli inguaribili egoisti che “rubano qualcosa al futuro per vivere meglio l’attimo presente”, quei conservatori incalliti che in nome di interessi e diritti costituiti negano chance ai giovani, sono anche nel Governo di cui Lei fa parte e ogni giorno di più Le impediscono di essere conseguente con le gravi valutazioni sullo stato di salute della nostra economia che ha esposto. Avrebbe potuto dire che sono quelle stesse forze – i massimalisti senza se e senza ma e i riformisti all’acqua di rose – ad averLa costretta l’altro giorno ad un’umiliazione in sede europea, che con Lei ha subito l’intero Paese, nel sentirsi dire in coro da Commissione Ue, Eurogruppo e Bce che destiamo “preoccupazione” e che se andiamo avanti così saremo “fuori dal Patto”. Chi meglio di Lei ha potuto valutare la serietà di quei giudizi e l’intenzione di non farci sconti? E chi, se non Lei, ha il dovere di rappresentare agli italiani i rischi che corriamo?

Guardi, qui non si tratta di chiederLe di svolgere un’azione di killeraggio nei confronti del Governo Prodi – Lei al Senato non vota – e neppure di evitare ogni mediazione in nome di un diritto al “purismo” che Le deriverebbe dal suo status di tecnico. No. Si tratta, invece, di chiederLe di distinguere tra il dovere della lealtà nei confronti di chi l’ha chiamata ad un così alto incarico istituzionale – ma pur sempre “politico”, malgrado la sua veste – e quello della lealtà verso il Paese.

Veda, Signor Ministro, ci sono dei momenti nei quali occorre fare delle scelte di fondo. E per chi, come Lei, non ha nulla da perdere – se non la Sua reputazione – e da temere – se non di essere accomunato con quella classe dirigente miope contro cui Lei ha giustamente alzato il dito – è venuto il momento di dire “ora o mai più”. Se poi si indica, come Lei ha saggiamente fatto, la “costante tentazione di dire solo cose gradite”, il “respiro corto dei nostri pensieri”, la “sfiducia che le cose possano mutare davvero” e la “esiguità delle forze che operano per il cambiamento rispetto a quelle che vi resistono” tra le cause della nostra perdurante immobilità, e se si richiama la necessità di “ripristinare quel patto implicito tra le generazioni che è stato sbilanciato”, allora si ha l’inderogabile dovere di “sporcarsi le mani” con la Politica. Il che significa o la ricerca del consenso intorno alle proprie tesi – operazione che in questo caso non può che superare i confini imposti da un sistema politico che poi è all’origine della nostra impasse – o la scissione delle responsabilità.

Con la stima di sempre,
Enrico Cisnetto pubblicato su Il Foglio di venerdì 13 luglio

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