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Il voto di Moody’s sulla finanza pubblica

Caro Prodi, altro che primavera...

Il rating sui conti italiani è lo stesso dal 2002. Tradotto: zero riforme strutturali

di Enrico Cisnetto - 07 maggio 2007

Evidentemente Moody’s ha la memoria corta. Nel suo tradizionale rapporto annuale, l’agenzia di rating ha stilato un bilancio sostanzialmente positivo sulla situazione dei conti pubblici italiani, anche se il voto di AA2 con outlook stabile già assegnato dal maggio 2002 è rimasto inalterato. Un giudizio tanto lusinghiero – e facilmente strumentalizzabile, come dimostra l’immediata acclamazione di Prodi “la primavera è arrivata” – quanto scarsamente motivato, visto che soltanto nel giugno scorso la stessa Moody’s aveva pronosticato che per il governo, a causa della maggioranza risicata che lo sosteneva, sarebbe stato difficile varare le riforme necessarie per rilanciare la competitività e raggiungere il consolidamento dei conti.

E, dato che nel frattempo la situazione politica non è cambiata, anzi, mentre qualche segnale di inversione di tendenza è arrivato sia sul fronte del fabbisogno statale – in aprile è salito a 10 miliardi contro i 7,9 del 2006, portando il primo quadrimestre a quota 33,8 miliardi contro i 33,2 del 2006 – sia dall’andamento della produzione industriale, in calo in tutto il primo trimestre, e dalla fiducia delle famiglie, che secondo l"Isae è scesa di quasi cinque punti tornando ai valori di maggio 2006, non si capisce da quali riforme strutturali e da quali politiche per il rilancio della competitività derivino le tinte rosa tratteggiate da Moody’s. Né da dove discenda la previsione, a dir poco generosa a questo punto dell’anno, di un pil in crescita di più del 2% a fine 2007.

Salvo non dover pensare che il rapporto, curato da Sara Bertin – le cui esternazioni hanno giustamente indotto Luca Paolazzi a scrivere per Radiocor che quelle “sul sommerso e sul reale tenore di vita degli italiani sono chiacchiere da bar non degne di un senior analyst di una delle principali agenzie di rating” – non abbia avuto la giusta supervisione. E’ del tutto evidente, infatti, che quel poco di ritrovata competitività sui mercati internazionali è arrivata grazie alla mutazione di pelle sostanzialmente spontanea di alcune (poche) delle nostre imprese, che hanno fatto da traino ad un sistema industriale in gran parte ancora non in grado di sostenere le sfide della globalizzazione, e che il surplus di crescita economica è dovuto sostanzialmente alla ripartenza della locomotiva tedesca, dato che i consumi interni continuano a stagnare.
Mentre nulla di strutturale è all’orizzonte se, per esempio, a pochi giorni dall’incontro con le parti sociali sulla previdenza, il governo non ha ancora messo a punto una proposta di riforma che vada nella direzione dell’aumento dell’età pensionabile, come ci ha chiesto a più riprese Bruxelles. Né è riuscito finora ad imporre ai sindacati e alla sinistra-sinistra quella revisione dei coefficienti che pure era prevista dalla legge Dini e ormai è in ritardo di due anni.

L’unico dibattito che sembra appassionare oggi è quello – penoso – su come spendere il “tesoretto” derivato dall’extragettito fiscale, la cui momentaneità (il governo non l’aveva previsto) e fragilità (non è detto che tutte le poste della Finanziaria si rivelino esatte) dovrebbe spingerci a utilizzarlo soltanto per la correzione del deficit. Insomma, Moody’s si rassegni: con buona pace di Padoa-Schioppa – e come era già successo nella scorsa legislatura – qui di riforme strutturali non si vede nemmeno l’ombra.

Pubblicato su La Sicilia di domenica 6 marzo

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