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Che fare con il patrimonio?

Caro Monti

Lettera aperta al professore per alcuni suggerimenti, anche se non richiesti

di Enrico Cisnetto - 02 dicembre 2011

Gentile Signor Presidente del Consiglio, mi permetto di scriverle questa (accorata) lettera aperta data l’imminenza delle decisioni che il governo si accinge a prendere in un momento mai così drammatico per la vita del Paese, e in vista delle scelte che, sperabilmente, dovrà fare l’Europa il 9 dicembre. Come lei sa, io sono tra coloro che prima hanno fatto voti perché lei fosse incaricato dal Presidente della Repubblica e poi hanno salutato con favore la nascita del suo governo e difeso da critiche ingenerose la tempistica delle sue mosse. Non solo, ho auspicato – qui in scarsa compagnia – che il governo Monti fosse ben di più dell’esecutivo tecnico che deve evitare il default, come l’hanno dipinto tutti quelli che all’emergenza ci hanno portato, cioè che fosse anche capace di produrre la necessaria discontinuità con il fallimentare sistema politico (il bipolarismo all’italiana) che ha caratterizzato gli ultimi due decenni, in modo che le prossime elezioni non siano le ennesime della Seconda Repubblica ma le prime della Terza. Dico questo – e la cosa ha maggiore importanza visto che lo faccio dalle colonne di un giornale, cui va il mio sentito ringraziamento per l’assoluta libertà concessami, che le è stato fieramente avverso – non per una captatio benevolentiae che non avrebbe motivo, ma per sottolineare il carattere costruttivo e propositivo di ciò che sto per dire. Professor Monti, sono molto preoccupato che la manovra sia quella di cui si parla da giorni. Non so quanto siano fondate le indiscrezioni, e dunque rimetto il giudizio a quanto effettivamente sarà. Ma se le anticipazioni fossero fondate, vorrei fin d’ora spiegarle i motivi della mia apprensione. Intanto un paio di questioni di metodo. La prima: come ho già detto, non le rimprovero ritardi, ma al suo posto una cosa nel frattempo l’avrei fatta, parlare al Paese. Lei sa benissimo che il motivo fondamentale per cui la politica ha eluso le grandi scelte è stata la paura di perdere consensi. Per anni si è taciuta la verità agli italiani, e ora qualsiasi decisione presuppone un dialogo con il Paese che va costruito da zero. Non averlo fatto finora è stato un errore, ma ancor più grave sarebbe non far precedere la manovra da un “discorso alla Nazione”. La seconda questione di metodo l’hanno già sollevata Alesina e Giavazzi sul Corriere di ieri: non importa l’entità della manovra, contano di più il saldo finale che essa produce nel tempo e la quantità di fiducia che è capace di generare. Sono d’accordo. Anzi, vado oltre, intanto che mi addentro nel merito: evitiamo interventi congiunturali. Perché fare una manovra sul deficit? Ne abbiamo fatte fin troppe – è stato calcolato 19 interventi in 12 anni per un totale di 575 miliardi, un’enormità – che sono certamente servite ad evitare guai peggiori ma che non ci hanno impedito di essere travolti dagli spread. E che sia Ici, Iva o altro, oltre ad un déjà vu Presidente, nel dialogo che per fortuna ha saputo riallacciare con l’Europa, e con Francia e Germania in particolare – ed è fin qui il suo merito maggiore – si adoperi a spiegare che l’azzeramento del deficit non è un mantra o comunque la prima delle nostre necessità, ed eviti di inseguire quota zero, che regolarmente perdiamo per colpa dell’aumento dei tassi e per il calo del pil. In cambio, assicuri una manovra di grande ampiezza sul debito. Io in questi ultimi tempi, e in questa rubrica in particolare, mi sono permesso di lanciare una proposta che le riassumo: creiamo una società veicolo da quotare in Borsa in cui mettere quei 700 miliardi di asset che il Tesoro asserisce essere la parte più facilmente valorizzabile dei 1800 miliardi totali di patrimonio pubblico; con il ricavato si riduca il debito (e quindi anche il deficit per via di minori oneri passivi) e si finanzi la ripresa con investimenti in conto capitale, nella misura rispettivamente di due terzi e un terzo; ad essa si leghi una patrimoniale light, sotto forma di acquisto forzoso di titoli (azioni e/o obbligazioni convertibili) della medesima società il cui ricavato sia utilizzato come sopra.

Questa “manovrona” sia poi accompagnata da alcune riforme strutturali: quella previdenziale (via le pensioni di anzianità, contributivo per tutti, libertà di scelta di uscita tra 65 e 70 anni); quella relativa al lavoro (unificazione dei “due mercati del lavoro”, quello dei garantiti e quello dei precari, abbassando le tutele dove ce ne sono troppe e alzandole dove ce ne sono troppo poche); le politiche di liberalizzazione. Sono convinto, professor Monti, che se la cifra del suo intervento fosse questa non solo risponderebbe pienamente al suo giusto motto “rigore, equità e sviluppo”, ma farebbe il bene del Paese, avrebbe il consenso di una parte importante dell’opinione pubblica, metterebbe in fuorigioco chi, tra le forze politiche e parlamentari, gioca al “tanto peggio, tanto meglio” e riscuoterebbe il plauso dell’euroclub, rafforzando quella ritrovata credibilità – fin qui tutta dovuta solo alla sua persona e al lavoro svolto dal Capo dello Stato – che ci consentirà di spendere una parola sulla necessità di un’Europa federale. Buon lavoro.

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