L'Italia delle esportazioni
Capitali per la crescita
Molte delle principali innovazioni sono nate in Italia, ma non sono riuscite a crescervi per l'assenza di denarodi Davide Giacalone - 25 febbraio 2012
La mancanza di credito minaccia d’asfissiare molte nostre imprese.
L’allarme è stato lanciato dalle organizzazioni imprenditoriali, condiviso dal governatore della Banca d’Italia e rimbalzato sui mezzi d’informazione. Una nuova moratoria, che allenti la tensione su quanti si trovano già esposti e in difficoltà con i pagamenti, è utile, ma serve a limitare i danni, non a propiziare la crescita. Serve a mantenersi in vita (e non è poco), non a svilupparsi. Non poniamoci solo il problema di come si fa a conservare, cerchiamo di aiutare chi è più capace a innovare ed esportare.
La prima reazione all’asfissia creditizia è quella di puntare il dito accusatore verso le banche. Se lo meritano, da tempo hanno smesso d’essere un’intelligenza finanziaria e hanno preso a concedere credito più a chi offre garanzie che a chi lo merita. Senza contare che una quota del credito va a nascondere gli errori commessi dalle banche, sicché tiene in vita i morti anziché dare forza ai vivi. Ma occorre stare attenti a che non sia un alibi, perché le banche sono state esplicitamente pressate a spostare i soldi verso il sostegno al debito pubblico, mentre vengono imbrigliate da regole che sembrano concepite apposta per trasformare i prestiti in pratiche burocratiche. A questo si aggiunga che nel nostro tessuto produttivo ci sono molti pezzi pregiati e protagonisti capaci di far crescere alla grande le esportazioni (spero non sia politicamente scorretto ricordarlo, ma accanto alle debolezze abbiano anche punti di forza). Rischiamo di consegnarli tutti agli istituti di credito stranieri, a cominciare da quelli tedeschi, francesi e spagnoli, che si approvvigionano di denaro ad un prezzo inferiore. Ciò comporta che la ricchezza creata andrà a remunerare, per la parte finanziaria, banche non italiane. Non mi piace il nazionalismo, neanche creditizio, ma neanche mi piacciono i vantaggi competitivi strappati con prepotenza. Se questa è l’Europa, di sicuro non è quella che vogliamo.
Posto ciò, i nostri campioni delle esportazioni meritano qualche cosa di più delle moratorie. Se la nostra condizione non è paragonabile a quella greca lo dobbiamo anche a loro. Settori che crescono nel mentre la crisi devasta i mercati sono segno di vitalità. Non vanno solo difesi, ma aiutati. In tal senso le banche possono fare molto, anche mettendo in comunicazione i propri sportelli con i propri uffici studi. Fra i nostri punti di forza c’è l’innovazione. E qui il discorso si fa doloroso. Ci sono innovazioni italiane che sono divenute pepite preziosissime, ma nelle mani di società non italiane, e ci sono innovatori che da noi non trovano credito, neanche a cannonate. A parte tutte le altre difficoltà, indotte da un ecosistema che predilige la conservazione all’innovazione, la protezione alla sfida, resta il fatto che la grande differenza fra il nostro ed altri mercati è che da noi è assai esiguo il capitale di rischio. Senza fondi che scommettono sull’innovazione, non sarebbero mai nate Apple, Google, Facebook e tante altre. E sì che nella prima un ruolo fondamentale lo ha avuto la tecnologia di compressione digitale per i suoni, l’MP3, che ha un padre (Leonardo Chiariglione) italiano!
Badate: non sto parlando dei fondi per la ricerca, che sono importanti, ma altra cosa, sto parlando di prodotti innovativi esistenti, con un mercato potenzialmente globale, ma tenuti sotto vetro dal nanismo delle aziende e dall’inesistenza di capitali disposti a scommettere. Scommessa che non è poi così rischiosa. Se si prende la lista di “Italia degli Innovatori”, che è frutto di attività governativa, e si cerca fra quanti hanno già avviato contatti promettenti con mercati in espansione (quale quello cinese, ma non solo), si hanno altrettanti indirizzi di imprenditori la cui crescita è impedita, o rallentata, solo dall’assenza di denaro. E non è neanche troppo, quello che serve. A questi nessuno rivolge attenzione, mentre sono un succoso mercato. Scommettere su un gruppo di loro significa vincere. Facendo vincere il Paese.
Siccome il solo modo che abbiamo di rendere sostenibile il debito pubblico è crescere, e siccome per crescere si deve liberare e investire, ecco che politiche pubbliche e quattrini privati hanno qui un buon terreno su cui rendersi utili. Insomma: se la si piantasse con le geremiadi e si ritrovasse la consapevolezza di quel che si può concretamente fare, eviteremmo di avere come massima aspirazione quella di passare dall’asfissia al boccheggiamento.
La prima reazione all’asfissia creditizia è quella di puntare il dito accusatore verso le banche. Se lo meritano, da tempo hanno smesso d’essere un’intelligenza finanziaria e hanno preso a concedere credito più a chi offre garanzie che a chi lo merita. Senza contare che una quota del credito va a nascondere gli errori commessi dalle banche, sicché tiene in vita i morti anziché dare forza ai vivi. Ma occorre stare attenti a che non sia un alibi, perché le banche sono state esplicitamente pressate a spostare i soldi verso il sostegno al debito pubblico, mentre vengono imbrigliate da regole che sembrano concepite apposta per trasformare i prestiti in pratiche burocratiche. A questo si aggiunga che nel nostro tessuto produttivo ci sono molti pezzi pregiati e protagonisti capaci di far crescere alla grande le esportazioni (spero non sia politicamente scorretto ricordarlo, ma accanto alle debolezze abbiano anche punti di forza). Rischiamo di consegnarli tutti agli istituti di credito stranieri, a cominciare da quelli tedeschi, francesi e spagnoli, che si approvvigionano di denaro ad un prezzo inferiore. Ciò comporta che la ricchezza creata andrà a remunerare, per la parte finanziaria, banche non italiane. Non mi piace il nazionalismo, neanche creditizio, ma neanche mi piacciono i vantaggi competitivi strappati con prepotenza. Se questa è l’Europa, di sicuro non è quella che vogliamo.
Posto ciò, i nostri campioni delle esportazioni meritano qualche cosa di più delle moratorie. Se la nostra condizione non è paragonabile a quella greca lo dobbiamo anche a loro. Settori che crescono nel mentre la crisi devasta i mercati sono segno di vitalità. Non vanno solo difesi, ma aiutati. In tal senso le banche possono fare molto, anche mettendo in comunicazione i propri sportelli con i propri uffici studi. Fra i nostri punti di forza c’è l’innovazione. E qui il discorso si fa doloroso. Ci sono innovazioni italiane che sono divenute pepite preziosissime, ma nelle mani di società non italiane, e ci sono innovatori che da noi non trovano credito, neanche a cannonate. A parte tutte le altre difficoltà, indotte da un ecosistema che predilige la conservazione all’innovazione, la protezione alla sfida, resta il fatto che la grande differenza fra il nostro ed altri mercati è che da noi è assai esiguo il capitale di rischio. Senza fondi che scommettono sull’innovazione, non sarebbero mai nate Apple, Google, Facebook e tante altre. E sì che nella prima un ruolo fondamentale lo ha avuto la tecnologia di compressione digitale per i suoni, l’MP3, che ha un padre (Leonardo Chiariglione) italiano!
Badate: non sto parlando dei fondi per la ricerca, che sono importanti, ma altra cosa, sto parlando di prodotti innovativi esistenti, con un mercato potenzialmente globale, ma tenuti sotto vetro dal nanismo delle aziende e dall’inesistenza di capitali disposti a scommettere. Scommessa che non è poi così rischiosa. Se si prende la lista di “Italia degli Innovatori”, che è frutto di attività governativa, e si cerca fra quanti hanno già avviato contatti promettenti con mercati in espansione (quale quello cinese, ma non solo), si hanno altrettanti indirizzi di imprenditori la cui crescita è impedita, o rallentata, solo dall’assenza di denaro. E non è neanche troppo, quello che serve. A questi nessuno rivolge attenzione, mentre sono un succoso mercato. Scommettere su un gruppo di loro significa vincere. Facendo vincere il Paese.
Siccome il solo modo che abbiamo di rendere sostenibile il debito pubblico è crescere, e siccome per crescere si deve liberare e investire, ecco che politiche pubbliche e quattrini privati hanno qui un buon terreno su cui rendersi utili. Insomma: se la si piantasse con le geremiadi e si ritrovasse la consapevolezza di quel che si può concretamente fare, eviteremmo di avere come massima aspirazione quella di passare dall’asfissia al boccheggiamento.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.