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Fino agli anni Novanta quasi solo debito interno

Capitali in fuga anche dai Bot

Sempre più risparmi vanno all’estero. E finanziano imprese concorrenti delle nostre

di Enrico Cisnetto - 28 novembre 2005

In fuga dalla Borsa, e ora anche dai Bot. Gli italiani abbandonano sempre più gli strumenti finanziari nostrani a favore di quelli esteri, ma i “capitali in fuga” dal nostro Paese non vengono sostituiti da quelli stranieri, anche se ben il 54% del debito pubblico italiano è in mano a investitori non nazionali, soprattutto istituzionali. Secondo una ricerca di Assogestioni, l’associazione di fondi di risparmio, negli ultimi tre mesi abbiamo investito in fondi esteri la cifra monstre di 8,108 miliardi di euro, con una crescita del 40%. E l’ultimo bollettino di Bankitalia ci dice anche che nei primi sei mesi del 2005 piazza Affari si è fatta soffiare ben 16 miliardi di euro degli investitori esteri.

Insomma, mentre noi preferiamo azioni e obbligazioni non italiane, dall’estero si compra il nostro debito attratti dal maggior premio al rischio che un paese nelle nostre condizioni deve pagare per rendere attraente l’investimento – fino all’inizio degli anni Novanta quello dell’Italia era un debito solo con sé stessa, visto che eravamo noi i più grandi acquirenti dei titoli di Stato – e per l’economia italiana già in declino questo doppio processo rischia di essere esiziale. E non potendoci aspettare nulla dalla riforma del tfr – se e quando andrà a regime, solo un lavoratore su tre aderirà alla previdenza complementare, e dei 13 previsti forse 5 miliardi arriveranno al mercato finanziario – è inevitabile che il nostro capitalismo, storicamente già povero di capitali, tenda ad impoverirsi e ad esporsi sempre di più all’urto della concorrenza competitiva mondiale.

Eppure il risparmio è il bene più importante che abbiamo, l’unica nostra commodity. Stiamo parlando di una quantità enorme di denaro: il patrimonio dei privati in Italia è pari a circa diecimila miliardi di euro; togliendo le immobilizzazioni, il valore delle attività finanziarie in mano alle famiglie si attesta sui 3400 miliardi, più del doppio del debito pubblico, che è arrivato a superare i 1500 miliardi. Si dirà: otto miliardi in meno sono una goccia nel mare. Certo, ma il dato della crescita del fondi esteri è la spia di una tendenza in aumento: questo significa non solo che non riusciamo a creare le condizioni perché questi soldi defluiscano verso le attività produttive (creando un popolo di rentiers invece che di imprenditori), ma anche che in questa maniera finanziamo imprese (e quindi interessi) esteri, che con quei capitali innovano le loro aziende e fanno concorrenza alle nostre.

Perché gli italiani non investono nelle nostre aziende? Sicuramente il ricordo dei recenti crack finanziari è ancora vivo, e poi in Italia il numero di società quotate è sempre stato limitato. Da considerare anche le scarse regole di governance, che hanno influito sul livello di contendibilità delle imprese: gli azionisti di minoranza, esclusi dal controllo, hanno sempre fatto da “parco buoi” e basta. Non stupiamoci allora se gli italiani i soldi preferiscono investirli all’estero, o per comprare case.

Ma, se continua così, l’Italia si troverà ad affrontare la radicale trasformazione della propria economia di cui ha bisogno senza il supporto del risparmio nazionale. E senza investimenti non si può combattere il declino. Da due anni si discute (inutilmente) della legge di tutela del risparmio, ma di questo neanche una parola.

Pubblicato sul Messaggero del 27 novembre 2005

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.