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Salviamo il settore navale dal naufragio

Cantiere Italia

Per noi italiani la cantieristica è un orgoglio. Un pezzo di mercato e anche un pezzo di storia

di Davide Giacalone - 08 luglio 2011

Fincantieri riceve plurimi attestati d’interesse ed amore. Nessuno, però, ha voglia di parlarne seriamente, affrontando i pericoli e valutando le opportunità di un settore, la cantieristica navale, nel quale abbiamo dell’eccellenza da spendere, ma anche del veleno da smaltire. Il Presidente della Repubblica ha esaltato il ruolo dei cantieri napoletani per il rilancio del sud, ed ha invitato a pranzo gli operai di quelli liguri.

Non c’è amministratore pubblico, dai comunali ai regionali, passando per i parlamentari eletti in quelle zone, che non ritenga preziosa e irrinunciabile la presenza storica del cantiere navale. Tutti, naturalmente, puntano alla salvaguardia dell’occupazione ed al rilancio. Cosa sia il rilancio, però, non si capisce. Lasciamo da parte i sentimenti un tanto al chilo e guardiamo in faccia la realtà.

Secondo Micky Arison, amministratore delegato di Carnival, una fra le grandi compagnie che gestiscono crociere, il settore assorbe 5 o 6 ulteriori navi l’anno. Carnival ha il 50% del mercato e almeno una loro nuova nave sarà realizzata in Italia. Abbiamo capacità produttive superiori, ma c’è concorrenza. E qui arrivano le note dolenti. I nostri principali competitori, nel campo delle navi da crociera, sono francesi e tedeschi, in tutti e due i casi dotati di un unico, grande cantiere nazionale. Fincantieri, invece, ne impiega quattro: Monfalcone, Marghera, Sestri Ponente e Ancona. Più altri due a supporto, presso cui vengono preparati dei tronconi: Castellammare di Stabia e Palermo.

A questi si aggiungano i cantieri di Riva Trigoso e Muggiano, in Liguria, destinati alle imbarcazioni militari, con quest’ultimo utilizzato anche per i grandi yacht. Non ci vuol molto a capire che Fincantieri, quindi la cantieristica italiana di quelle dimensioni, subisce costi fissi superiori ai concorrenti e sinergie inferiori. Svantaggio competitivo messo in evidenza dai dati sul lavoro. I lavoratori di Fincantieri sono 8.202. Altri 365 si trovano presso società collegate e controllate. Totale: 8.567. Le ore di lavoro annue medie pro capite, nel biennio 2008-2010, sono state 1.474. Medie analoghe indicano 1.595 ore per i francesi e 1.655 per i tedeschi. Dentro la stessa Fincantieri, negli stabilimenti statunitensi, la media è di 1.824 ore. Controprova: la media di assenteismo, calcolato in ore per anno, è, nel settore metalmeccanico di 145 ore, gli operai Fincantieri si assentano per 214 ore, quelli di Monfalcone per 268 e quelli di Sestri Ponente per 274. In queste condizioni non è che non si salvano tutti i posti di lavoro, è che non si salvano neanche i cantieri e, alla lunga, la cantieristica nel suo insieme. E’ una competizione drogata, ma a nostro svantaggio. E gli spacciatori li abbiamo in casa.

Qualche giorno fa Fincantieri ha consegnato una nave splendida, con un nome evocativo: Costa Favolosa. Occorre si stia attenti a non varare anche la formula del sicuro insuccesso: Costi Favolosi. Il problema non è solo di chi amministra il gruppo, perché nella situazione che ho brevemente descritto si riconosce il corredo genetico dei mali italiani, ovvero la pretesa di navigare i mercati globali conservando tutte le arretratezze e gli egoismi provinciali. Non si può.

Giuseppe Bono, amministratore di Fincantieri, aveva annunciato tagli occupazionali per 2.551 posti. Gli sono saltati tutti addosso, me compreso. Gli contestai un fatto: o quei tagli sono necessari, e in quel caso deve farli, o non lo sono, e allora non avrebbe dovuto annunciarli. Altri gli contestarono roba vagamente folcloristica. Bono torna sul punto, specificando di non avere mai voluto licenziare. Detto in modo più schietto: si blocca il turn over, si approfitta dei pre pensionamenti, si prolunga, ove possibile, la cassa integrazione e i conti possono tornare. Si consideri che Fincantieri ha sempre consegnato al suo azionista, lo Stato, sia gli utili (421 milioni fra il 2002 e il 2008) che le imposte, quindi è un’impresa sana. Ma nel 2009-2010 ha registrato perdite per 188 milioni, proprio a causa di una struttura produttiva mal distribuita, sovraccarica e a corto di commesse.

Per noi italiani la cantieristica è un orgoglio. Un pezzo di mercato e anche un pezzo di storia. Sappiamo competere, grazie all’altissima qualità dei prodotti. Ma non salveremo il settore con le celebrazioni e neanche con gli appelli. Le disfunzioni devono essere corrette e gli amministratori messi nelle condizioni di operare le scelte che ritengono necessarie (rispondendone, naturalmente). Se, invece, prevale il “sociale”, se la proprietà pubblica diventa un vincolo politico, allora prepariamoci al naufragio. Sul ponte, anziché ballare, si staranno scannando.

Pubblicato da Libero

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