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L'Italia e l'Europa

C'è crisi e crisi

La crisi, pur avendo colpito tutti senza eccezione alcuna, da noi ha lasciato un segno molto più profondo

di Enrico Cisnetto - 12 maggio 2013

C’è crisi e crisi. Le ultime previsioni elaborate a Bruxelles indicano per il 2013 una decrescita del pil dell’Eurozona dello 0,4%, con la fine della recessione già nella seconda metà dell’anno, e per il 2014 una crescita dell’1,2%. Per l’Italia, a voler prendere per omogeneità le stime Ue (quelle di Fmi e Ocse sono peggiori), il quadro è diverso: -1,3% quest’anno, trascinamento della recessione a tutto il primo semestre 2014 e poi piccola ripresa che consente di chiudere l’anno con un +0,7%. Lo scostamento è di circa un punto nel 2013 e mezzo nel 2014. Ma se si considerano i paesi competitor, lo scarto aumento di molto: con la Germania, che chiude questo e il prossimo anno con +0,4% e +1,8%, la distanza è di 1,7 e 1,1 punti; con la Francia, che farà -0,1% e +1,1%, è di 1.4 e 0,4 punti. E questo se il raffronto è dentro il club dell’euro. Perché se andiamo fuori, il distacco aumenta. Già con il Regno Unito lo scarto si avvicina ai due punti di pil, ma se si guarda agli Usa e a maggior ragione ai paesi asiatici e sudamericani più performanti, lo scarto diventa abissale.

Insomma, questa dati stanno a dimostrare che la crisi, pur avendo colpito tutti senza eccezione alcuna, in taluni casi ha lasciato un segno molto meno evidente che in altri. Persino tra i paesi che hanno visto la morte in faccia, c’è differenza: l’Irlanda, per esempio, è già fuori dalla recessione (+1,1% nel 2013 e +2,2% nel 2014), la Spagna è più o meno nelle nostre condizioni, mentre per Grecia e Cipro è buio pesto (ma Atene l’anno prossimo dovrebbe avere il nostro stesso risultato). D’altra parte, al di là del pil, è il livello di competitività dei diversi paesi a stilare la classifica: secondo un’analisi di Cer per Rete Imprese Italia ci segnala che tra il 2007 e il 2013, da noi è diminuita del 5,2%, mentre nello stesso periodo quella tedesca è aumentata di oltre il 6%. Una divaricazione che conferma il sospetto che contro di noi non abbiano giocato soltanto la crisi mondiale, prima, e la recessione europea, poi, ma un difetto congenito del sistema-paese che deve essere aggredito se si vuole tornare a crescere davvero.

Quali sono i motivi di questo gap? Sostanzialmente due. Il primo ha a che fare con i difetti, che ben conosciamo, di tutto ciò che agisce al di fuori del processo produttivo: dalla burocrazia costosa e inefficiente alla giustizia lenta che non assicura la certezza del diritto, passando per un sistema istituzionale centrale e (soprattutto) periferico bloccante. Il secondo riguarda invece la produttività delle imprese, che senza molte distinzioni tra manifatturiere e di servizi è negativamente condizionata da alcuni connotati tipici delle aziende: dalla loro scarsa capitalizzazione, internazionalizzazione e managerializzazione alla poca propensione all’innovazione tecnologica, di prodotto come di processo, passando per la dimensione troppo piccola derivante dall’eccesso di individualismo. Nodi di fondo, attinenti anche alla mentalità collettiva, che richiedono tempo per essere ridimensionati e rimossi. Per questo occorre agire su quei fattori più immediatamente rimuovibili, come il costo del lavoro, il trattamento fiscale, il costo del credito (rispetto a quelle competitor, le nostre imprese pagano il denaro mediamente 4 punti in più). Governo Letta, se ci sei batti un colpo.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.