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Oltre il voto

Brusco risveglio

La siderale distanza che c'è tra la politca e il paese, giunto al quarto anno di recessione

di Enrico Cisnetto - 22 febbraio 2013

Ancora poche ore e poi, chiuso il circo elettorale che ha offerto il più brutto spettacolo della storia della Repubblica, torneremo alla dura realtà. Anzi, durissima. Il consuntivo dell’orribile 2012 è drammatico: abbiamo perso 2,2 punti di pil, il fatturato dell’industria è sceso del 4,4% e gli ordini si sono contratti del 9,8%, mentre solo nell’ultimo bimestre sono andati perduti 186 mila posti di lavoro, che si aggiungono ai 600 mila bruciati in precedenza. Dei cinque anni che ci separano dall’inizio della grande crisi finanziaria mondiale (2008-2012), tre sono stati di recessione, che ci hanno sottratto ben sette punti e mezzo di ricchezza, in soldoni circa 120 miliardi. Ma anche il 2013, a causa della bassa domanda interna e a giudicare dagli ordinativi, rischia di andare ancora male.

Già siamo partiti con un già acquisito -1% di pil, cosa non prevista e che costringe a rivedere all’ingiù le stime 2013, anche perché nel secondo semestre sarà difficile recuperare considerato che le imprese hanno ordini nei cassetti che su base tendenziale viaggiano a -15%, il dato peggiore da ottobre 2009 (dato che deriva dalla somma algebrica tra il -21,4% del mercato interno e il -6% degli ordini dall’estero). Non è un caso, dunque, che la Confindustria parli di “quadro di estrema debolezza e fragilità”, condizionato dalla fiducia delle famiglie precipitata al minimo storico. I consumi non ripartono, come dimostra il nuovo crollo delle vendite di auto in gennaio. La redditività delle imprese continua a diminuire, anche per effetto di un accentuato aumento delle materie prime (petrolio in testa, tornato a 100 dollari al barile) e per il livello eccessivo del cambio dell’euro. Il credito è tornato ad essere rarefatto per il rinnovato timore delle banche (specie quelle piccole e medie di territorio, che in precedenza avevano evitato il credit crunch) circa la solvibilità della clientela, a sua volta condizionata da un’intollerabile mancanza di liquidità cui contribuiscono le amministrazioni pubbliche che continuano a non pagare i fornitori.

Se questa è la cruda ma veritiera rappresentazione della realtà, cioè del declino di un Paese che sta vivendo il quarto anno (quasi consecutivo) di recessione dopo averne vissuti 15 di stagnazione, e per di più in un contesto europeo dove si è riusciti (grazie alla Bce) a salvare l’euro ma non a trovare la via dell’integrazione e la giusta politica tra risanamento finanziario e sviluppo, beh la cosa che salta agli occhi è la siderale distanza che separa la politica da questa realtà. Qui non si tratta di ricette sbagliate – che pure non mancano, da quella pericolosamente facile che predica l’uscita dell’Italia dall’euro a quella populista del giù le tasse per tutti (senza dire dove si taglia), passando per il “piano per il lavoro” della Cgil, serio ma ugualmente impraticabile se non vogliamo farci di nuovo strozzare dagli spread – ma di diagnosi totalmente sbagliate. Infatti, tutta la kermesse elettorale, ma a ben vedere anche la disputa dei mesi precedenti, è stata caratterizzata da una sola parola d’ordine: restituire i soldi agli italiani. Che non è proprio l’approccio più realista e utile, anche per chi come me è keynesiano e ha più a cuore la crescita dell’austerità. Persino Monti si è prestato a questo gioco di promesse crescenti, peraltro inutile perché agli occhi degli italiani la politica delle lusinghe ha più ben poca credibilità (come, temo, si vedrà lunedì a voto terminato).

Se a questo si aggiunge la crescente possibilità che dalle urne non emerga un quadro di solida stabilità politica, ma al contrario di instabilità dovuta alla necessità di alleanze forzate, o addirittura di totale ingovernabilità, allora è inevitabile dedurre che il dopo-elezioni si presenti come foriero di guai. Avremo bisogno di un’azione riformatrice di forte impatto, a cominciare da un intervento una-tantum sul debito mettendo in campo il patrimonio pubblico, che agli occhi dei partner europei rappresenti la garanzia delle nostre buone intenzioni e che, dunque, li induca ad essere tolleranti con noi sul deficit corrente per evitare manovre correttive e strette. Ma se, come temo, di scelte radicali non ci fosse neppure l’ombra, per ragioni di fragilità del quadro politico emerso dalle elezioni, allora non solo assisteremmo ad una recrudescenza degli attacchi ai titoli del nostro debito da parte dei mercati finanziari, ma anche ad un insopportabile aumento delle pressioni degli altri membri del club della moneta unica. Tanto più che ottobre si voterà anche in Germania. Data in cui si potrebbe essere costretti a tornare a votare anche da noi. E non è detto che sia la cosa peggiore che ci possa capitare.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.