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Brindisi

Bombre bugiarde

Il soffio dell'espolosione ha innalzato il vento della retorica, delle banalità. Delle idiozie

di Davide Giacalone - 23 maggio 2012

Con le tre bombole di Brindisi è esplosa anche l’Italia delle banalità, in una reazione a catena che ha innescato il solito circo di finti protagonisti di una finta antimafia. I soliti esibizionisti si sono prodotti nella pensosità senza pensiero, degna compagna delle loro carriere senza meriti. Non credo all’ipotesi del pazzo, suppongo che dietro quel gesto criminale ci sia una motivazione, me la immagino legata a qualche cosa di locale, di circoscritto, forse anche di personale. Non lo so, naturalmente, e spero le indagini lo chiariscano. So che quell’atto deve essere punito come merita e che il terrorista debba finire in galera i suoi giorni, che agisca in solitudine o in compagnia. Ma so anche che le parole al vento, sprecate sul filo che va da Giovanni Falcone alle bombe di mafia, sono il sintomo di un’Italia ignorante e bugiarda, il cui effetto è confondere le idee su quella orribile stagione della nostra storia. Le bombe del 1993 non furono messe per seminare il terrore, ma in un dialogo criminale con chi poi seppe come fermarle. Lo ha ricordato il ministro della giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, dicendo: decisi di non rinnovare il regime di carcere duro (41 bis) per dei gruppi di mafiosi, in modo da fermare quelle bombe. Che si fermarono. Il governo era quello di Carlo Azelio Ciampi. Come faceva Conso a saperlo? Non lo sapeva, glielo aveva suggerito Adalberto Capriotti, voluto a capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) da Oscar Luigi Scalfaro, allora presidente della Repubblica, cui lo aveva segnalato Cesare Curioni, capo dei cappellani carcerari, suo carissimo amico. C’era una logica. Perversa, immonda, criminale, ma pur sempre una logica. Rifaccio, per l’ennesima volta, quei nomi perché lì si sarebbero dovute fare indagini che non sono state fatte. Quando, nel gennaio del 2010, un bombolone fu fatto esplodere, in piena notte, davanti agli uffici giudiziari di Reggio Calabria, nel mentre tutti scrivevano di “bomba ad alto potenziale” e di reazione delle cosche contro i sequestri dei beni, noi leggevamo la cosa diversamente: è un avvertimento, qualcuno dialoga con chi lavora nella giustizia. Le indagini, poi, ci diedero ragione. Eppure, anche allora, quanta retorica sprecata. Nel caso di Brindisi si è partiti dal nome cui è stata intestata la scuola: Falcone (che poi, in verità, trattasi della moglie, la signora Morvillo). Quindi si attacca la tiritera: ancora una volta la mafia mette le bombe per fermare lo Stato. E questo è inquinamento della memoria, perché Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non furono fermati dalle bombe, bensì dai colleghi della procura di Palermo e da quelli del Consiglio superiore della magistratura. Se ne ricorda, un po’ tardi, ma pur sempre meritoriamente, Gian Carlo Caselli, che sul Corriere della Sera racconta di come Falcone fu prima battuto, poi isolato, infine giunse la strage. Peccato che Caselli faccia riferimento al maxi processo (1986), laddove la piaga aperta era quella dell’inchiesta mafia-appalti. La stessa inchiesta che fu smembrata, distrutta e archiviata non appena anche Borsellino divenne cadavere. Il capo della procura, in quel momento, non era Antonino Meli, che era stato preferito a Falcone, come Caselli correttamente (e amaramente) ricorda, ma Pietro Giammanco, che poi, subito dopo, se ne andò in cassazione. Il suo successore fu proprio Caselli. Accostare queste storie a quelle del terrorista brindisino confonde le indagini e compromette la memoria (fortuna che ci sono le telecamere, la cui diffusione andrebbe favorita, altro che impedita per ragioni di privacy!). Per non parlare delle parole a vanvera sulla strategia della tensione, sugli apparati deviati e così via inanellando paralleli impraticabili. Che nuocciono, perché già gli italiani sono geneticamente predisposti a credere nell’occulto, nel misterioso e nell’immaginare sia lo Stato, per non dire della politica, la causa di tutte le sporcizie. Difatti era questo che uno come Alfredo Galasso, avvocato, esponente politico eletto nelle liste del Partito Comunista Italiano e poi aderente alla rete di Leoluca Orlando Cascio, rimproverava a Giovanni Falcone: il ministero (aveva un incarico a Grazia e Giustizia) ti fa male. Falcone rispondeva: non hai senso dello Stato. Il pubblico applaudiva Galasso, perché quell’incultura è il midollo dell’Italia smidollata. L’oltraggio più intollerabile è proprio questo: nel nome di Falcone si pretende di dare forza e sostanza a quella cultura che manca di senso dello Stato. Conservate i commenti all’infame esplosione di Brindisi, così potrete ripassare l’elenco degli adepti.

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