Ma perché aspettare settembre per le riforme?
Berlusconi IV, è già “fase due”
Pesano i ritardi strutturali e il differenziale di crescita. Ripartiamo dallo sviluppodi Enrico Cisnetto - 18 luglio 2008
Incredibile. Sono passati appena 95 giorni dalle elezioni e 64 giorni dal voto di fiducia con cui le Camere hanno dato luce verde al Berlusconi IV, e siamo già alla “fase due” del governo. E’ difficile definire diversamente, infatti, il senso dei reiterati annunci del premier che “a settembre faremo la rivoluzione”, facendo in particolare riferimento al problema della riforma della giustizia e a quello della crisi economica. Settembre? E perché si dovrebbe attendere? Che differenza fanno questi due mesi? Questo è un governo che ha avuto due anni di tempo – quando faceva l’opposizione a Prodi – per prepararsi all’appuntamento con la responsabilità di dover decidere. E le cose allora stavano come stanno oggi, in questo periodo non è successo nulla che abbia cambiato in modo significativo il quadro dei problemi.
Il default della giustizia (penale e civile) c’è oggi come c’era già molti anni fa, se è cambiato qualcosa è il drammatico peggioramento della situazione. Perché, allora, la “grande riforma” di cui ora si parla al futuro, per quanto prossimo, non è stata predisposta in tempo per essere illustrata in campagna elettorale e messa nell’agenda dell’esecutivo fin dal primo giorno di legislatura? Perchè si è esordito, su questo terreno, con iniziative che con tutta evidenza – e peggio ancora se non era nelle intenzioni – sono apparse come esclusivamente finalizzate a sistemare i problemi personali di Berlusconi? Non era meglio, per il premier come per il Paese, affrontare subito quelle questioni sacrosante – dall’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale alla separazione delle carriere, tanto per citare le più gettonate – che si vorrebbero mettere in calendario per settembre?
Stesso ragionamento per quanto riguarda l’economia. A metà maggio, quando Camera e Senato hanno votato la fiducia, il petrolio quotava 125 dollari al barile. Oggi è a 136 dollari e qualche giorno fa aveva fatto il record storico a 147: certo parliamo di aumenti tra il 10% e il 20%, e nessuno può affermare che le voci su un prezzo di 200 dollari siano infondate, ma è del tutto evidente come già allora (e anche nei mesi precedenti, se è per questo) fosse chiaro che il fronte petrolifero avrebbe generato aumenti dei costi e inflazione importata. Da questo punto di vista, dieci o venti dollari non in più non fanno differenza. Così come era già scritta la correzione ulteriore dei corsi di Borsa e la sofferenza del dollaro sull’euro (che comunque due mesi fa era già a 1,55 contro il massimo di 1,60 segnato qualche giorno fa).
Allora, il quadro macro-economico e la congiuntura internazionale ci fanno vedere le cose oggi in modo diverso dai giorni della campagna elettorale e della formazione del nuovo governo? No. E allora perchè enfatizzare un quadro che rimane certamente difficile, ma che può contare anche su stime positive, come dimostra la decisione di ieri del Fondo Monetario di aggiornare al rialzo la previsione di crescita sia del pil mondiale – che passa dal 3,7% per quest’anno e 3,8% per il prossimo (stime di aprile, mese delle nostre elezioni) rispettivamente al 4,1% e al 3,9% – sia di quello Usa (da +0,5% a +1,3% nel 2008 e da +0,6% a +0,8% nel 2009), sia di quello di Eurolandia, che guadagna tre decimi di punti salendo all’1,7%.
Certo, anche per l’Italia c’è un miglioramento (dallo 0,3% allo 0,5%), ma questo conferma due cose: il distacco della nostra economia da quella europea e americana permane; il trend della congiuntura internazionale ha invertito la rotta e comunque non ha mai fatto davvero temere una recessione globale. Questo significa – spiace ripeterlo, ma sarebbe bene farlo diventare un punto fermo e condiviso di analisi – che per l’Italia contano i suoi ritardi strutturali e il differenziale di crescita che essi hanno generato negli ultimi 15 anni. Ieri lo ha detto con chiarezza il ministro Brunetta, e sarebbe bene affermarlo una volta per tutte, anche se farlo dimostrerebbe l’assunto da cui sono partito: non c’è nessun bisogno di aspettare per sapere che la nostra situazione economica è grave e che occorre mettere la ripresa dello sviluppo al primo punto nella gerarchia delle priorità.
Per carità, la legislatura è appena iniziata, ben venga anche la “fase due” se porta – nel metodo e nel merito – quelle decisioni troppo a lungo rinviate. E ben venga pure il rimpasto, se serve. Ma, per favore, non ci si venga a dire che se l’incipit del governo è stato claudicante, la colpa è dei nemici del Cavalieri.
Il default della giustizia (penale e civile) c’è oggi come c’era già molti anni fa, se è cambiato qualcosa è il drammatico peggioramento della situazione. Perché, allora, la “grande riforma” di cui ora si parla al futuro, per quanto prossimo, non è stata predisposta in tempo per essere illustrata in campagna elettorale e messa nell’agenda dell’esecutivo fin dal primo giorno di legislatura? Perchè si è esordito, su questo terreno, con iniziative che con tutta evidenza – e peggio ancora se non era nelle intenzioni – sono apparse come esclusivamente finalizzate a sistemare i problemi personali di Berlusconi? Non era meglio, per il premier come per il Paese, affrontare subito quelle questioni sacrosante – dall’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale alla separazione delle carriere, tanto per citare le più gettonate – che si vorrebbero mettere in calendario per settembre?
Stesso ragionamento per quanto riguarda l’economia. A metà maggio, quando Camera e Senato hanno votato la fiducia, il petrolio quotava 125 dollari al barile. Oggi è a 136 dollari e qualche giorno fa aveva fatto il record storico a 147: certo parliamo di aumenti tra il 10% e il 20%, e nessuno può affermare che le voci su un prezzo di 200 dollari siano infondate, ma è del tutto evidente come già allora (e anche nei mesi precedenti, se è per questo) fosse chiaro che il fronte petrolifero avrebbe generato aumenti dei costi e inflazione importata. Da questo punto di vista, dieci o venti dollari non in più non fanno differenza. Così come era già scritta la correzione ulteriore dei corsi di Borsa e la sofferenza del dollaro sull’euro (che comunque due mesi fa era già a 1,55 contro il massimo di 1,60 segnato qualche giorno fa).
Allora, il quadro macro-economico e la congiuntura internazionale ci fanno vedere le cose oggi in modo diverso dai giorni della campagna elettorale e della formazione del nuovo governo? No. E allora perchè enfatizzare un quadro che rimane certamente difficile, ma che può contare anche su stime positive, come dimostra la decisione di ieri del Fondo Monetario di aggiornare al rialzo la previsione di crescita sia del pil mondiale – che passa dal 3,7% per quest’anno e 3,8% per il prossimo (stime di aprile, mese delle nostre elezioni) rispettivamente al 4,1% e al 3,9% – sia di quello Usa (da +0,5% a +1,3% nel 2008 e da +0,6% a +0,8% nel 2009), sia di quello di Eurolandia, che guadagna tre decimi di punti salendo all’1,7%.
Certo, anche per l’Italia c’è un miglioramento (dallo 0,3% allo 0,5%), ma questo conferma due cose: il distacco della nostra economia da quella europea e americana permane; il trend della congiuntura internazionale ha invertito la rotta e comunque non ha mai fatto davvero temere una recessione globale. Questo significa – spiace ripeterlo, ma sarebbe bene farlo diventare un punto fermo e condiviso di analisi – che per l’Italia contano i suoi ritardi strutturali e il differenziale di crescita che essi hanno generato negli ultimi 15 anni. Ieri lo ha detto con chiarezza il ministro Brunetta, e sarebbe bene affermarlo una volta per tutte, anche se farlo dimostrerebbe l’assunto da cui sono partito: non c’è nessun bisogno di aspettare per sapere che la nostra situazione economica è grave e che occorre mettere la ripresa dello sviluppo al primo punto nella gerarchia delle priorità.
Per carità, la legislatura è appena iniziata, ben venga anche la “fase due” se porta – nel metodo e nel merito – quelle decisioni troppo a lungo rinviate. E ben venga pure il rimpasto, se serve. Ma, per favore, non ci si venga a dire che se l’incipit del governo è stato claudicante, la colpa è dei nemici del Cavalieri.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.