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Il ledear siriano cerca alleati in Arabia ed Egitto

Bashar al Assad coinvolto nel caso Hariri

Cosa accadrebbe se le accuse risultassero fondate? La situazione diventa incandescente

di Antonio Picasso - 10 gennaio 2006

Il leader siriano, Bashar al Assad, rischia di essere messo sotto torchio da parte della giustizia internazionale. L’accusa è la presunta colpevolezza di mandante dell’omicidio dell’ex premier libanese, Rafik Hariri, morto in un attentato a Beirut il 14 febbraio 2005. Il caso è estremamente particolare. Perché si tratta di un tentativo di inquisizione internazionale di un leader politico al potere che non è stato vittima di alcuna “detronizzazione”. Assad non è come i gerarchi nazisti a Norimberga, o come Slobodan Milosevič che, una volta sconfitti e perso il potere, sono dovuti comparire di fronte a un tribunale internazionale, per rispondere dei loro crimini efferati. Del resto, la storia non ricorda un uomo politico chiamato a testimoniare per un caso di omicidio di un altro politico straniero, le cui cause della morte sono rintracciabili nello Stato di cui il testimone è leader. Inoltre, la Siria non può permettersi che il suo presidente compaia né sul banco dei testimoni, né tanto meno su quello degli imputati di una corte internazionale.

Ecco perché Damasco è alla ricerca di supporter credibili e di alleati che facciano da garanti della non colpevolezza e del non coinvolgimento di Assad nella morte di Hariri. Ed è stato lo stesso presidente siriano il primo a cercare di convincere alcuni Paesi arabi, nella fattispecie Egitto e Arabia Saudita, affinché intercedano per lui alle Nazioni Unite. Da qui il motivo della visita, nella capitale saudita Rijad, del leader siriano a re Abdullah, durante l’ultimo fine settimana. Tuttavia, suscita perplessità il fatto che l’Arabia e l’Egitto accettino di affiancarsi alla Siria. Certo, l’alleanza tra “fratelli arabi” è ammantata di un significato che travalica le motivazioni strategiche e che sfocia nell’ideologia e nel fattore religioso. L’elemento Islam ha ancora il suo peso presso i governi musulmani, compresi quelli laici. Lo stesso succedeva nel mondo cristiano, ma solo ai tempi delle passate monarchie. Oggi, agli occhi dell’Occidente – e non solo per gli Stati Uniti, vista l’esplicito intervento del Palazzo di vetro con la creazione della Commissione d’inchiesta Melhis – il regime siriano è un cardine dell’Asse del Male, insieme a Iran e Corea del Nord. Per Rijad e per Il Cairo, allora, il rischio di compromettersi e di sporcarsi le mani è evidente. Il regno saudita, in qualità di primo produttore al mondo di petrolio, è da sempre il primo alleato arabo degli Stati Uniti. L’Egitto, dal canto suo, a seguito delle recenti elezioni, si trova sotto i riflettori della comunità internazionale in quanto il regime di Hosni Mubarak sta traghettando – almeno così pare – il Paese dalla sua stessa autocrazia a una condizione democratica. Di conseguenza, se per la Siria i due Paesi potrebbero rappresentare una valida alleanza, non è detto che lo stesso possa risultare per questi ultimi.

A questa operazione siriana, la stampa araba ha dato molto risalto. Ha riconosciuto la validità della mediazione saudita, ma ha sottolineato anche che, adesso, spetta alla Siria aprire le trattative con il Libano, per evitare che il contenzioso degeneri. Certo, il fatto che sia Damasco a dover fare la prima mossa è indiscutibile. Rendere noti i nomi dei responsabili dell’attentato e punirne mandanti ed esecutori materiali sarebbero le azioni giuste per smorzare gli attriti con Beirut e dimostrarsi disponibile al dialogo con l’Occidente. Tuttavia, queste sono operazioni fattibili e assolutamente normali per un paese democratico, meno si addicono a una dittatura ereditaria qual è il regime di Damasco. E resta da chiedersi, infine, cosa accadrebbe se le accuse ad Assad dovessero rivelarsi fondate e se egli risultasse il mandante in ombra per l’eliminazione di Rafik Hariri.

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