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La vicenda Alitalia-Air One-B.Intesa

Bancocentrismo? Sì, grazie

Nessun rischio pianificazione dell'economia: solo politica industriale

di Enrico Cisnetto - 21 dicembre 2007

Bancocentrismo? Sì, grazie. Non poteva mancare, a latere della discussione sul destino di Alitalia, il ritorno di fiamma del dibattito sul troppo potere che avrebbero le banche nei confronti dell’industria del Paese. Con tutto il corollario del rischio di pianificazione dell’economia in stile sovietico, e delle esortazioni a “fare il proprio mestiere” senza impicciarsi di quanto avviene nel panorama imprenditoriale. Sul banco degli imputati stavolta ci sono finiti Corrado Passera e Banca Intesa, “colpevoli” di aver presentato insieme all’AirOne un piano di rilancio del nostro disastrato vettore nazionale. No, non il Tesoro (di ieri e di oggi) con i suoi e(o)rrori di strategia e procedura – ultimo dei quali voler “far cassa” con Alitalia anziché salvarla pretendendo che sia comprata con un aumento di capitale riservato – ma chi torna a fare quello che una volta avrebbe fatto la Mediobanca di Cuccia.

D’altra parte, basta scorrere le cronache di questi anni di declino per notare come la questione posta ora da Andrea Boitani e Carlo Scarpa su Lavoce.info – secondo cui le banche sarebbe colpevolmente protagoniste di “una sorta di politica industriale fatta in nome e per conto di governi centrali e locali che non sanno come farla o dicono di non volerla fare” – sia ricorrente fin dagli anni Ottanta. Dalla Fiat alle telecomunicazioni passando per le autostrade, ogni volta che uno o più istituti di credito si presentano, da soli o in tandem con imprenditori, a garantire una soluzione “di sistema” per un’impresa in difficoltà, subito i primi della classe, gli alfieri del mercatismo fanatico e masochista, erano lì ad alzare la manina per dire che “no, così non si fa”, e che in un Paese normale le banche finanziano ma non mettono bocca.

Una posizione “di scuola” che, come al solito, abitando nell’iperuranio, rifiuta per principio di fare i conti con la specificità italiana. La quale è da sempre dotata di due particolarità precipue: quella di una popolazione con una spiccata propensione al risparmio e, per contrasto, di un capitalismo dalla struttura anoressica, povera di liquidità, incapace di attirarne dall’esterno, e per di più allergico alla Borsa come corsia preferenziale per reperire capitale di rischio. Questo ha portato negli anni alla perpetuazione di un tessuto industriale fondato su pochissime grandi imprese – tarate da molti vizi: scatole cinesi, intrecci, conflitti di interesse – e da una miriade di piccole incapaci di fare sistema, e di un mercato finanziario dove i capitali “alternativi” (fondi pensione, private equity) sono marginali e le banche d’affari, dopo la trasformazione genetica di Mediobanca, sono interessate solo ai grandi merger e alle operazioni del Tesoro.

In una situazione del genere, le banche sono state e sono ancora oggi l’interlocutore privilegiato – meglio, l’unico – a cui le imprese hanno dovuto e potuto fare riferimento per attingere liquidità; e gli istituti di credito hanno nel tempo assunto giocoforza una sorta di supplenza del ruolo degli imprenditori, quando i protagonisti hanno dovuto fare, a causa di errori strategici o raggiunti limiti di età, un passo indietro. E’ la dinamica, per esempio, con cui si è perfezionata l’uscita di scena dei Lucchini, dei Ferruzzi o degli Orlando. Basta guardare i fatti, quindi, per accorgersi che le banche sono arrivate soltanto a riempire quel vuoto che negli anni hanno lasciato gli imprenditori, sul lato del mercato, e la politica sul fronte dell’interesse generale. Meno male, quindi, che oggi qualcuno abbia il coraggio di fare politica industriale, visto che chi ne sarebbe legittimato in virtù della volontà popolare, ha rinunciato al suo ruolo per paura di essere accusato di dirigismo e interventismo (magari!), e ancor peggio per insipenza. Anzi, visto che il processo di concentrazione che in questi ultimi anni ha snellito il settore del credito, ha avuto come effetto (positivo) di darci istituti di dimensioni internazionali, ma anche quello (negativo) di rarefare la concorrenza sul mercato domestico, la supplenza nella politica industriale – quella che opportunamente Bazoli ha chiamato “banca al servizio del Paese” – è l’unico vero vantaggio che le grandi fusioni possono dare all’economia italiana. Che poi questa massa critica si possa giocare in modo difensivo, come accadrebbe per Alitalia se passasse la proposta AiOne, oppure allo scopo di perpetuare quella poca presenza italiana in settori strategici come successe – sempre con protagonista Banca Intesa – nel caso di Esaote (gioiello della diagnostica), l’importante è che venga sempre salvaguardato, in una logica di mercato e non di assistenza, l’interesse nazionale. Ma tenere fuori le banche sarebbe l’ennesimo errore compiuto in nome di un pregiudizio ideologico che non possiamo più permetterci. Dice Giannino, cantore della “creazione di valore per gli azionisti”, che così si mette in pericolo la redditività delle banche. No, una banca “al servizio del Paese” non è, per il solo fatto di esserlo, in perdita; né è asserito che la redditività differita non remuneri. E sull’articolo 47 della Costituzione, caro Giannino, ha ragione De Mattia: “tutela il risparmio innanzitutto in funzione degli investimenti che esso consente”. Per uscire dal declino, bisogna che statalisti e liberisti – due facce della stessa medaglia – lascino il campo al pragmatismo che tenta di ricostruire il “sistema” distrutto da anni di non governo. Cominciando a permettere, per esempio, che le banche partecipino alla ristrutturazione di un settore vitale come i trasporti.

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