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Public Policy

Legge di (in)Stabilità

Balle d'acciaio

Il governo sta sbagliando nel metodo, prima ancora che nel merito. E più che il coraggio, serve il buonsenso

di Enrico Cisnetto - 15 novembre 2013

Una regola ferrea che personalmente cerco di applicare nella vita, recita più o meno così: quando vola uno schiaffo, la colpa è di chi se lo fa dare. Credo vada usata nel caso della legge di (in)stabilità che ora transita in Parlamento, sottoposta dalle polemiche interne alla maggioranza a preventiva delegittimazione prima ancora che venisse seppellita sotto il peso di migliaia di emendamenti (peraltro sempre cancellabili con un sol colpo di spugna se palazzo Chigi decidesse di ricorrere al solito maxi-emendamento con annessa fiducia). Se lo applicassimo, quel principio, scopriremmo che la colpa di questa lapidazione non è di chi vuole modificare o addirittura buttare quella che una volta era la Finanziaria, ma del governo che l’ha scritta e non la difende con la dovuta fermezza.

Sia chiaro, non sto sostenendo che la legge di stabilità partorita dal consiglio dei ministri ormai qualche settimana fa sia perfetta. Tutt’altro. Dico però che non è pensabile che il governo la produca e poi la lasci straziare da un branco famelico di emendatori, che nella maggior parte dei casi, tra l’altro, intendono peggiorarla. Il governo ha deciso di varare questa manovra? Bene, se ne assuma la piena responsabilità e la difenda. Il governo si è accorto che le scelte che ha fatto non vanno o che qualcuno sta proponendo idee migliori? Ancor meglio, si assuma la responsabilità di dire al Paese che ha sbagliato e ne proponga una nuova. L’importante è che usi la fermezza. Perché, come ha scritto saggiamente Dario Di Vico sul Corriere, la cosa peggiore che si possa fare, tanto più in una fase di generalizzata sfiducia come quella che stiamo attraversando, è iniettare dosi di incertezza in un corpo, quello sociale e produttivo italiano, che è già fortemente debilitato proprio a causa del sommarsi di mille indeterminatezze e insicurezze.

Invece, tutti, dai ministri ai parlamentari, hanno scelto di usare quella ipocrita definizione che recita: “a saldi invariati” si può fare qualunque modifica. Non è la prima volta, e sappiamo come è sempre finita: che la manovra ne è uscita peggiorata e con i saldi “sforati”. Visto l’alto tasso di instabilità politica che , questo atteggiamento è nello stesso tempo comprensibile – ciascuno pensa a massimizzare il proprio specifico nella convinzione, quasi sempre erronea, di guadagnarci elettoralmente – ma pernicioso, perché è proprio con questo atteggiamento remissivo, sempre alla ricerca della mediazione preventiva, che si alimenta l’instabilità e quindi l’incertezza. Non è questione di “palle d’acciaio” o meno, è questione di cifra politica.

Detto ciò, cosa si può fare arrivati a questo punto? Scartiamo, per realismo, l’ipotesi che si cambi completamente fisionomia alla manovra. Adesso non ci sono (più) le condizioni né per negoziare con la Ue una moratoria sul deficit al 3% – come andava fatto, impegnandosi in contropartite serie su alcune riforme strutturali – né per stravolgimenti pur restando nei confini impostici da Bruxelles, come pure si poteva fare. Scartiamo, altresì, l’idea che il governo o blindi la legge così com’è o al contrario subisca l’estenuante corpo a corpo parlamentare. Non rimane dunque che una strada intermedia: tenere fermo tutto introducendo una variante significativa. Quale? Per certi versi c’è solo l’imbarazzo della scelta. Provo a indicarne una che abbia il pregio della facile praticabilità: strutturare subito, con modalità diversa dalla prima, una seconda e onnicomprensiva operazione di rimborso dei debiti della pubblica amministrazione.

Non c’è chiarezza su quanti siano stati effettivamente rimborsati fin qui, ma si sa che la prima tranche relativa al 2013 si è fermata ad un totale di 27,2 miliardi. Ne mancano dunque cinque volte tanto. Vogliamo per questo centinaio di miliardi usare il sistema spagnolo della garanzia statale prestata alle banche, che pagano i creditori? Se vi serve chi vi scrive la norma, chiedete a Franco Bassanini, che fin dal primo momento ha (inutilmente) cercato di spiegare a tutti i decisori che questa era la strada più veloce ed efficace. Significa far emergere nuovo debito e aggravare il rapporto debito-pil che, essendo arrivato al 133%, avrebbe invece bisogno di essere ridotto? Beh, intanto quello debito è e debito rimane, e ormai anche i polli sanno che ci sono almeno 3 punti da aggiungere a quello ufficiale anche se per ora formalmente è lecito non conteggiarli. E poi, se alla Spagna l’operazione azzeramento del debito commerciale delle pubbliche amministrazioni ha reso oltre un punto di pil di crescita (o di minor recessione), ecco che avvenendo altrettanto qui – e non occorre certo spiegare quanto abbiamo bisogno di un bel punto di pil in più – quel rapporto debiti-pil verrebbe comunque ridimensionato dall’aumento del denominatore. E poi, l’operazione avrebbe tre valenze positive: non tocca il deficit, che in questa fase è cosa decisiva; ha già la benedizione dell’Europa (quella data alla Spagna); sana situazioni inaccettabili (in Campania ci sono debiti ancora risalenti al 1988).

Ci volete provare? Non il tanto invocato coraggio. È buon senso.

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