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Opa: è opportuno o no modificare la disciplina?

Attenti agli estremi rimedi

E’ meglio riflettere prima di adottare misure che potrebbero “ingessare” il sistema il Paese

di Angelo De Mattia - 17 ottobre 2008

Il “silete” di Carl Schmitt – che Tremonti ha rinnovato rivolgendosi giustamente a una schiera di economisti incapaci di prevedere la crisi finanziaria – ora, se si procederà a emendare la disciplina delle Offerte pubbliche di acquisto (OPA), dovrebbe avere come destinatari alcuni giuristi (del resto, come in Schmitt), politici, imprenditori, cosiddetti esperti. Infatti, quando, nel recepire la direttiva sull’OPA comunitaria, passò, nella scorsa legislatura, la linea dell’introduzione di norme restrittive che non sfruttavano gli spazi pure consentiti agli ordinamenti nazionali da quella direttiva e utilizzati da altri Paesi, coloro che espressero voci critiche si potevano contare meno che sulle dita di una mano.
Chi parlava di “italianità” era segnalato come reprobo. E così fu approvata, alla fine, una disciplina, tra l’altro, della passivity rule molto rigorosa, ancorché bilanciata (ma solo in parte) dal principio di reciprocità, ben al di là del quale altri Stati sono andati concedendo la possibilità alle società-bersaglio di attivare misure difensive in presenza di OPA ostili. Financo il mondo societario non obiettò, anzi optò per la linea restrittiva, temendo che società italiane che fruissero della facoltà di attivare ampie misure difensive non avrebbero potuto lanciare OPA non amichevoli nei Paesi della Comunità perchè le società oggetto dell’offerta avrebbero invocato il principio di reciprocità e avrebbero attivato conseguentemente pari misure difensive.

Quando il cancelliere tedesco Angela Merkel sollevò il problema del ruolo dei “fondi sovrani” e delle loro mire di conquista, non risulta che in Italia vi sia stato chi si sia associato a quell’allarme. Ora, dal Governo – con le dichiarazioni del Presidente del Consiglio che preannuncia un emendamento governativo alla disciplina in questione – e, soprattutto, dalla Consob si scopre l’insufficienza delle possibilità difensive rispetto alle OPA anzidette. E’ opportuno o no dare corso a questa modifica? Gli scopi della disciplina delle offerte pubbliche (di acquisto, vendita, scambio) sono contemporaneamente quelli di rendere possibile la contendibilità delle imprese, stimolare la maggiore trasparenza del mercato e, specialmente, tutelare gli azionisti di minoranza. Si è spesso oscillato, in sede teorica e applicativa, nel privilegiare l’una o l’altra di queste finalità. Tuttavia, la pluralità e la paritarietà degli scopi qualificano meglio questo istituto giuridico introdotto in Italia agli inizi degli anni Novanta - quando si cominciò a por mano al superamento del far west del mercato - riformulato e reso più organico con il Testo unico della finanza del 1998 e poi rivisto ancora, a seguito della ricordata direttiva comunitaria, che fu approvata dopo una lunghissima gestazione anche per gli ostacoli opposti dalla Germania.

Il raggiungimento delle finalità indicate può essere oggi in parte abbandonato, sia pure in nome della straordinarietà della situazione, che però dovrebbe riguardare, per l’ampiezza della crisi finanziaria, tutti gli altri mercati e società? Si è, nel frattempo, ricreduto anche il mondo imprenditoriale? Occorrerebbe disporre di dati precisi per poter valutare la fondatezza delle “minacce” che proverrebbero dai fondi sovrani o da altri soggetti, soprattutto se mirate non alle società che beneficiano di quel particolare regime protettivo previsto per le imprese con il 30 per cento di partecipazione pubblica. Informazioni di questo tipo, naturalmente, costituiscono materia sensibilissima, idonea a influenzare i mercati.

Ma poi, una volta che la verifica risultasse positiva, occorrerebbe concludere che la modifica dell’OPA - che impatterebbe anche sull’acquisizione di società italiane da parte di consorelle pure italiane - è l’unica via da seguire, escludendo che le imprese colpite siano in grado di difendersi con i mezzi ora disponibili e con il ruolo che lo Stato potrebbe svolgere in molti altri modi: tanto più se gli “offerenti” sono fondi sovrani. Se tuttavia – valutati i “pro” e i “contra” – si imbocca la strada della modifica legislativa, occorrerà porre attenzione al tipo di emendamenti che si introdurranno. Si parla, ad esempio, di rendere possibili le misure difensive senza passare attraverso l’assemblea straordinaria delle società sotto OPA, di facilitare le operazioni di aggregazione societaria o di aumento di capitale, ecc. Mentre sarebbe preferibile puntare di più sull’accrescimento dei poteri della Consob per la trasparenza, è comunque importante che “dalla miniriforma” non scaturiscano stravolgimenti nell’impianto degli organi societari. Ma, soprattutto, è possibile una innovazione del genere senza un raccordo europeo?

In un mercato che, per quanto riguarda le società non finanziarie, ha visto l’ultima grande OPA nel 1999 su Telecom, è opportuno riflettere prima di adottare misure che potrebbero ulteriormente “ingessare”. La tutela degli azionisti di minoranza e la messa in causa dei vincoli societari spesso affetti da conflitti di interessi non sono, certo, obiettivi liberistici; non sono incoerenti con l’economia sociale di mercato. E’ vero che non si può dimenticare la crisi, né il principio che a mali estremi si risponde con estremi rimedi. Ma è bene essere sicuri che di mali estremi si tratta, che sono in questione punti importanti dell’apparato produttivo, o comunque del sistema imprenditoriale, del nostro Paese.

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