L'editoriale di Società Aperta
Aspettando la fine di un epoca
Il superamento dell'impasse Berlusconi-magistratura coincide con la fine di Pd e Pdldi Enrico Cisnetto - 22 giugno 2013
Risultati elettorali, sia delle politiche che delle amministrative, bis di Napolitano al Quirinale, governo di grande coalizione, sentenza della Corte Costituzionale su Berlusconi, dinamiche interne ai partiti: tutto congiura – compreso l’inizio della fine del movimento di Grillo – per un definitivo superamento di Pd e Pdl, dei due poli che essi hanno per lungo tempo incarnato (con Sel e Lega destinati a diventare altro) e del Centro, sia nella versione vecchia dell’Udc sia in quella più recente di Scelta Civica. Insomma, la perdita di oltre 10 milioni di voti che Centro-sinistra, Centro-destra e Centro hanno subito nei due appuntamenti elettorali del 2013 e la disgregazione del consenso pentastellare – prodottasi in tempi più veloci di quanto si potesse immaginare, nonostante non sia diminuito, anzi, il sentimento di avversione alla politica degli italiani – non potrà non produrre uno tsunami che spazzerà via i protagonisti di un sistema politico che non c’è più. E, paradossalmente, il governo sorretto dalla “strana maggioranza”, meno fa e più accentua le dinamiche disgregative dei partiti – compresi quelli d’opposizione – anche se probabilmente allunga la vita a se stesso.
Fateci caso: dopo le politiche è montata la percezione, aiutata dalla fallimentare gestione bersaniana dell’esito del voto, che il Pd potesse esplodere da un momento all’altro, mentre viceversa sembrava che la rimonta del Pdl (illusione ottica, visto che ha perso sei milioni di voti) potesse consolidare Berlusconi. Dopo le amministrative, invece, le parti si sono rovesciate: il Pdl non ha più un sindaco, e quindi la totale mancanza di classe dirigente appare la miglior premessa per la sua implosione, mentre il Pd vince ovunque (illusione ottica anche questa, visto che aggiunge quasi mezzo milione ai 3,5 milioni di voti che aveva perso a febbraio) e sembra rinsaldarsi in attesa del congresso. In realtà, in entrambi i casi prevalgono le rispettive debolezze: il Pd è irrimediabilmente diviso tra i riformisti che stanno al e col governo e quelli che sognano un non ben identificato cambiamento di sinistra (hanno rialzato la testa di fronte allo sgretolamento del gruppo parlamentare grillino), e il congresso si profila il luogo e il momento in cui le diversità diventano spaccatura insanabile; il Pdl è tenuto insieme solo da Berlusconi – nel senso che tutti hanno paura di perdere voti senza di lui, compresi quelli che l’anno scorso hanno accarezzato l’idea di disfarsene – ma lui non ne ha più voglia perché si vede arrivare addosso come un treno l’ineleggibilità e l’interdizione dai pubblici uffici. Quanto al Centro, non mette neppure conto parlarne: mentre va in scena lo scontro Monti-Casini, non esiste già più, ammesso che sia mai esistito.
Quando e come accadrà l’irreparabile? Purtroppo, ancora una volta i tempi e i modi li detta la magistratura. La sentenza con cui la suprema Corte ha respinto il conflitto d’attribuzione, non riconoscendo al premier il diritto di fissare la data del Consiglio dei ministri e con quella eccepire legittimo impedimento in un procedimento penale, conferma che i poteri non sono più tali, per cui il processo di pacificazione – cui il governo Napolitano-Letta dovrebbe puntare – non è nelle disponibilità né del Quirinale né di Palazzo Chigi. Nello specifico, è evidente che quella riunione fu strumentale, ma non di meno è assurdo che un magistrato pretenda che gli vengano spiegate le ragioni di una convocazione dei ministri. Siamo all’uso improprio del potere politico e all’abuso di quello giudiziario. Nella pubblica rappresentazione le due cose sono alternative, in realtà convivono, si alimentano l’un l’altra e si sommano. Come ha ben scritto Davide Giacalone, non è pensabile che la forza elettorale sia giocata contro la giustizia, così come non è pensabile che la giustizia sia giocata contro la forza elettorale. Siccome entrambe le cose succedono da anni, senza che né i tribunali né le urne riescano a prevalere, bisogna in qualche modo uscirne. Già, ma come?
Giacalone sostiene che l’unico modo è sottrarre Berlusconi sia alla sorte giudiziaria che alla competizione elettorale, per poi riformare la giustizia in modo da riportare la magistratura nell’alveo dell’indipendenza e sottrarla a quello della separatezza autoreferenziale (che peraltro non colpisce solo la politica, si veda l’assurda condanna penale degli stilisti Dolce e Gabbana per elusione fiscale, cioè per qualcosa di legale, anche se moralmente riprovevole, consentito dalla vischiosità delle norme). In Società Aperta ci sono sensibilità diverse su questo punto. Unite, però, dalla comune valutazione che se è vero che una parte della magistratura da vent’anni cerca di far fuori giudiziariamente il Cavaliere così come aveva fatto fuori gran parte della classe politica della Prima Repubblica, non meno vero è che Berlusconi invece di usare la forza elettorale che gli italiani a più riprese gli hanno dato, per riformare seriamente la giustizia (penale e civile) e ridefinire la gerarchia dei poteri, ha battuto solo la strada delle leggine ad personam. Finendo per certificare ciò di cui i suoi carnefici lo accusavano, e cioè fare politica esclusivamente per proteggere se stesso. Il risultato è che ora la sua permanenza in politica spinge le diverse magistrature a cercare l’affondo finale, e impedisce – pur in regime di grande coalizione – ai riformisti-garantisti di entrambi gli schieramenti di unire le forze per bloccare il caos giudiziario. Solo che il suo ruolo politico è legittimato dal voto, non è un sopruso. E la situazione è così deteriorata che lo scambio “sua uscita dalla politica” in virtù di una “manleva giudiziaria” non si riesce a costruire. Neppure se il Presidente della Repubblica lo nominasse senatore a vita. Dunque? O lascia sua sponte, ma finora ha mostrato di preferire la morte di Sansone, o il rebus non sembra avere soluzione.
E qui torniamo al superamento di Pd e Pdl da cui siamo partiti. La cosa è certo che succederà, ma il possibile svolgimento prevede due scenari opposti. Il primo, virtuoso ma improbabile, è che nel centro-destra maturi la consapevolezza che occorre andare oltre Berlusconi e che quindi il processo disgregativo sia la causa dell’uscita di scena del Cavaliere. Il secondo, invece, rovescia il meccanismo, per cui il partito finisce se e quando è il suo fondatore a causarne la morte. Molto dipenderà da cosa faranno i Democratici: prima e più si spacca, tanto maggiori saranno le chance di innescare un processo implosivo nel Pdl; più cerca di tenere unito ciò che politicamente è già diviso, e tanto meno sarà possibile che qualcosa accada sull’altro fronte, a prescindere dalle scelte (o necessità) di Berlusconi.
È incredibile, ma nonostante che il fallimentare sistema bipolare voluto e modellato a sua immagine e somiglianza dal Cavaliere sia ormai defunto – come certifica la grande coalizione – i protagonisti di quella fase politica, e persino le meteore nate grazia alla denuncia di quel fallimento (Grillo), sono ancora lì attardati ad inciamparsi su Berlusconi e sulle degenerazioni del sistema giudiziario, invece che darsi da fare a costruire la Terza Repubblica.
Fateci caso: dopo le politiche è montata la percezione, aiutata dalla fallimentare gestione bersaniana dell’esito del voto, che il Pd potesse esplodere da un momento all’altro, mentre viceversa sembrava che la rimonta del Pdl (illusione ottica, visto che ha perso sei milioni di voti) potesse consolidare Berlusconi. Dopo le amministrative, invece, le parti si sono rovesciate: il Pdl non ha più un sindaco, e quindi la totale mancanza di classe dirigente appare la miglior premessa per la sua implosione, mentre il Pd vince ovunque (illusione ottica anche questa, visto che aggiunge quasi mezzo milione ai 3,5 milioni di voti che aveva perso a febbraio) e sembra rinsaldarsi in attesa del congresso. In realtà, in entrambi i casi prevalgono le rispettive debolezze: il Pd è irrimediabilmente diviso tra i riformisti che stanno al e col governo e quelli che sognano un non ben identificato cambiamento di sinistra (hanno rialzato la testa di fronte allo sgretolamento del gruppo parlamentare grillino), e il congresso si profila il luogo e il momento in cui le diversità diventano spaccatura insanabile; il Pdl è tenuto insieme solo da Berlusconi – nel senso che tutti hanno paura di perdere voti senza di lui, compresi quelli che l’anno scorso hanno accarezzato l’idea di disfarsene – ma lui non ne ha più voglia perché si vede arrivare addosso come un treno l’ineleggibilità e l’interdizione dai pubblici uffici. Quanto al Centro, non mette neppure conto parlarne: mentre va in scena lo scontro Monti-Casini, non esiste già più, ammesso che sia mai esistito.
Quando e come accadrà l’irreparabile? Purtroppo, ancora una volta i tempi e i modi li detta la magistratura. La sentenza con cui la suprema Corte ha respinto il conflitto d’attribuzione, non riconoscendo al premier il diritto di fissare la data del Consiglio dei ministri e con quella eccepire legittimo impedimento in un procedimento penale, conferma che i poteri non sono più tali, per cui il processo di pacificazione – cui il governo Napolitano-Letta dovrebbe puntare – non è nelle disponibilità né del Quirinale né di Palazzo Chigi. Nello specifico, è evidente che quella riunione fu strumentale, ma non di meno è assurdo che un magistrato pretenda che gli vengano spiegate le ragioni di una convocazione dei ministri. Siamo all’uso improprio del potere politico e all’abuso di quello giudiziario. Nella pubblica rappresentazione le due cose sono alternative, in realtà convivono, si alimentano l’un l’altra e si sommano. Come ha ben scritto Davide Giacalone, non è pensabile che la forza elettorale sia giocata contro la giustizia, così come non è pensabile che la giustizia sia giocata contro la forza elettorale. Siccome entrambe le cose succedono da anni, senza che né i tribunali né le urne riescano a prevalere, bisogna in qualche modo uscirne. Già, ma come?
Giacalone sostiene che l’unico modo è sottrarre Berlusconi sia alla sorte giudiziaria che alla competizione elettorale, per poi riformare la giustizia in modo da riportare la magistratura nell’alveo dell’indipendenza e sottrarla a quello della separatezza autoreferenziale (che peraltro non colpisce solo la politica, si veda l’assurda condanna penale degli stilisti Dolce e Gabbana per elusione fiscale, cioè per qualcosa di legale, anche se moralmente riprovevole, consentito dalla vischiosità delle norme). In Società Aperta ci sono sensibilità diverse su questo punto. Unite, però, dalla comune valutazione che se è vero che una parte della magistratura da vent’anni cerca di far fuori giudiziariamente il Cavaliere così come aveva fatto fuori gran parte della classe politica della Prima Repubblica, non meno vero è che Berlusconi invece di usare la forza elettorale che gli italiani a più riprese gli hanno dato, per riformare seriamente la giustizia (penale e civile) e ridefinire la gerarchia dei poteri, ha battuto solo la strada delle leggine ad personam. Finendo per certificare ciò di cui i suoi carnefici lo accusavano, e cioè fare politica esclusivamente per proteggere se stesso. Il risultato è che ora la sua permanenza in politica spinge le diverse magistrature a cercare l’affondo finale, e impedisce – pur in regime di grande coalizione – ai riformisti-garantisti di entrambi gli schieramenti di unire le forze per bloccare il caos giudiziario. Solo che il suo ruolo politico è legittimato dal voto, non è un sopruso. E la situazione è così deteriorata che lo scambio “sua uscita dalla politica” in virtù di una “manleva giudiziaria” non si riesce a costruire. Neppure se il Presidente della Repubblica lo nominasse senatore a vita. Dunque? O lascia sua sponte, ma finora ha mostrato di preferire la morte di Sansone, o il rebus non sembra avere soluzione.
E qui torniamo al superamento di Pd e Pdl da cui siamo partiti. La cosa è certo che succederà, ma il possibile svolgimento prevede due scenari opposti. Il primo, virtuoso ma improbabile, è che nel centro-destra maturi la consapevolezza che occorre andare oltre Berlusconi e che quindi il processo disgregativo sia la causa dell’uscita di scena del Cavaliere. Il secondo, invece, rovescia il meccanismo, per cui il partito finisce se e quando è il suo fondatore a causarne la morte. Molto dipenderà da cosa faranno i Democratici: prima e più si spacca, tanto maggiori saranno le chance di innescare un processo implosivo nel Pdl; più cerca di tenere unito ciò che politicamente è già diviso, e tanto meno sarà possibile che qualcosa accada sull’altro fronte, a prescindere dalle scelte (o necessità) di Berlusconi.
È incredibile, ma nonostante che il fallimentare sistema bipolare voluto e modellato a sua immagine e somiglianza dal Cavaliere sia ormai defunto – come certifica la grande coalizione – i protagonisti di quella fase politica, e persino le meteore nate grazia alla denuncia di quel fallimento (Grillo), sono ancora lì attardati ad inciamparsi su Berlusconi e sulle degenerazioni del sistema giudiziario, invece che darsi da fare a costruire la Terza Repubblica.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.