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Public Policy

Ancora bipolarismo

Anno nuovo, idee vecchie

Nonostante le novità del governo Monti, la politica continua a parlare di un sistema vecchio

di Enrico Cisnetto - 05 gennaio 2012

Anno nuovo, idee vecchie. Nonostante la novità del governo Monti, pare che la discussione pubblica sulle questioni relative al nostro sistema politico sia rimasta ancorata alla vecchia questione del “bipolarismo sì, bipolarismo no”, e che tutta l’attenzione sia destinata a concentrarsi sulla decisione che la Corte Costituzionale dovrà prendere in merito al referendum sulla legge elettorale. La stessa denuncia che Giovanni Sartori ha fatto nei giorni scorsi sulle colonne del Corriere della Sera di una politica italiana maledettamente “a corto di idee”, si è poi ridotta ad una contraddittoria denuncia del carattere professionale del fare politica – presupposto della creazione della cosiddetta Casta – quasi che vi fosse un’alternativa (che infatti il professor Sartori non indica). La vera questione, invece, era e continua ad essere quella che si era aperta nel 1992 – fra poco, a febbraio, saranno due decenni esatti dall’inizio della cosiddetta operazione Mani Pulite – con la caduta della Prima Repubblica. Allora si disse che il problema italiano era la mancanza di alternanza e si pensò che adottando un meccanismo di voto di tipo maggioritario e un sistema politico bipolare, i nostri problemi si sarebbero risolti. Segni e il suo referendum s’incaricarono di raccontare questa teoria al Paese, che avendo voglia di cambiamento la fece propria in modo massiccio e convinto. Fu un’illusione collettiva, un abbaglio. Prima di tutto perché sistemi politici e leggi elettorali non sono mai giusti o sbagliati in assoluto, ma in relazione al dna del paese cui si applicano e al momento storico in cui si calano.

L’Italia individualista, corporativa e campanilista non era e non è tuttora né la Francia del semipresidenzialismo né l’Inghilterra del bipartitismo. Infatti ci siamo inventati un bipolarismo all’italiana, basato su una contrapposizione nello stesso tempo fittizia (non su valori, progetti e programmi, ma sul giudizio su una persona, Silvio Berlusconi) e da guerra di religione (berlusconismo e antiberlusconismo), e incarnato da partiti senza radici culturali che hanno formato alleanze spurie, di cui le componenti minoritarie ed estreme hanno avuto la golden share. Risultato: abbiamo dato vita ad una sorta di “alternanza obbligatoria” – dal 1994 in poi chi era al governo ha sempre perso le elezioni – che non ha per nulla aumentato, anzi, la capacità dei diversi esecutivi e del parlamento di governare il Paese. Tutto questo, che abbiamo chiamato Seconda Repubblica, è stato gestito con diverse e sempre peggiori leggi elettorali, che hanno tolto ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti (l’uso della preferenza, pur oggetto di distorsioni, è infinitamente meglio) e con cervellotici sistemi di computo dei voti (premio di maggioranza privo di qualsiasi soglia minima).

Ora, ditemi voi cosa ci sia da difendere e tutelare di un sistema politico siffatto. Nulla. Ma tant’è, in questi anni i cantori del bipolarismo a base maggioritaria da un lato lo hanno confuso, esso che è un mezzo, con il fine dell’alternanza, e dall’altro quando proprio non hanno più avuto argomenti per difenderlo, si sono messi a decantare il bipolarismo in chiave teorica, dicendo che ciò che occorre fare in Italia è passare da quello malato a quello sano. Senza mai spiegare, però, come si faccia e perché in Italia abbiamo sperimentato la versione peggiore. Ora, siccome non è il caso di tirare in ballo la sfortuna, non resta che dirci una volta per tutte che una destra populista e una sinistra massimalista non possono essere la base di una proficua alternanza e che l’unico modo per ridurne l’impatto è quello di unire – inevitabilmente al centro dello schieramento politico – le forze moderate e liberali con quelle riformiste. Francamente speravo che la caduta del governo Berlusconi e la necessità di ricorrere ai dei “tecnici” inducesse anche i paladini più strenui di un bipolarismo che non c’è a rivedere le proprie posizioni. Ma così non è, mi pare. La riprova l’ho avuta il 2 gennaio da un mio dialogo sul palco di “Cortina InConTra” con Paolo Mieli, che stimo moltissimo per acutezza di analisi, capacità di retrospezione storica e visione anticonformista della politica. Eppure anche lui, dopo aver detto cose sagge sui professori prestati alla politica e pronunciato parole che molta sinistra considera eretiche sulle scelte da fare in economia, ha finito col pronunciare la solita orazione a beneficio del sistema bipolare a base maggioritaria, sostenendo che il positivo lascito della Seconda Repubblica è quello e dunque nascano pure partiti nuovi ed emergano leader diversi dagli attuali, ma l’importante è che gli italiani possano ancora ritrovarsi a scegliere tra una coalizione di centro-destra e una di centro-sinistra. Il non detto di questa come di posizioni simili è a mio avviso quello di pensare che Berlusconi sia ormai uscito di scena (al massimo fa il padre nobile) e che di conseguenza senza di lui il bipolarismo militarizzato trovi la capacità di imboccare la strada virtuosa del disarmo bilanciato fino a diventare un’alternanza tra poli che non solo hanno smesso di delegittimarsi a vicenda ma hanno individuato un terreno comune di condivisione, differenziandosi solo su alcune questioni di natura programmatica.

Magari fosse così. Ma la realtà è un’altra: ammesso e non concesso che il Cavaliere sia out, sulla scena politica stanno ancora prevalendo quattro cose che non si cancellano solo con i buoni auspici. Primo: populisti e massimalisti prevalgono nei due poli, e si possono battere solo unendo i moderati e riformisti. Secondo: le tossine della contrapposizione “Berlusconi sì, Berlusconi no” sono ancora in circolo, e le buone intenzioni non bastano ad espellerle. Terzo: il ceto politico è da riselezionare e le capacità programmatiche scarseggiano (come si è visto nella fase uno di Monti). Quarto: ci vuole una nuova legge elettorale, e un’eventuale riesumazione della Mattarella per via referendaria. Per tutti questi motivi la Terza Repubblica, se vogliamo evitare che risulti peggiorativa così come lo è stata la Seconda rispetto alla Prima, deve nascere adottando il sistema politico-istituzionale e la legge elettorale che più hanno avuto successo in Europa, quelli tedeschi. Che, come ha giustamente ricordato Stefano Passigli sul Corriere della Sera, ha assicurato dal dopoguerra in poi governabilità, alternanza e un bipolarismo sostanziale che è stata capace, quando necessario, di lasciare spazio a grandi coalizioni. Possiamo approfittare del fatto che al presente bada Monti per chiarirci le idee sul futuro, discutendo e decidendo su questi punti così essenziali?

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