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Il “giudizio non tanto divino” delle agenzie di rating

Altro che oro colato

Sono necessarie manovre di natura strutturale

di Enrico Cisnetto - 16 settembre 2011

Premessa: non ho gran stima delle agenzie di rating, di come lavorano e dei conflitti d’interesse di cui spesso sono protagoniste. E ho sempre criticato l’eccesso di attenzione che ai loro giudizi viene riservato, sia da parte degli operatori che dei media. Così come ho trovato imbelle la paura di cui si mostrano vittime i leader politici di mezzo mondo.

Di conseguenza, non ho mancato di giudicare eccessive certe pagelle: eccessivamente tardive quelle emesse subito prima ma anche nel corso stesso della crisi finanziaria mondiale del 2007-2009, di cui il caso più clamoroso è rappresentato dal downgrade post-mortem dato alla Lehman Brothers, eccessivamente anticipatrici quelle rilasciate più recentemente, appunto dopo le polemiche sollevate dalle sviste precedenti. Una di queste pagelle pre-veggenti era di tre mesi fa, e riguardava l’Italia.

Un warning di Moody’s basato su un giudizio politico: “l’adozione di nuove misure a tutela del bilancio potrebbe dimostrarsi difficile, perché il sostegno elettorale del governo si sta indebolendo”. Dissi allora: irricevibile, ma probabilmente azzeccato. A distanza di tre mesi confermo, con il suffragio dell’inguardabile balletto cui siamo stati costretti ad assistere intorno alla manovra.

Ora, si attende per oggi o domani un nuovo “giudizio divino” di Moody’s. E si teme che sia tale da farci scendere di un gradino nella sua scala di affidabilità. Si potrebbe, anzi si dovrebbe, dire: chissenefrega. Ma siccome nessuno lo dirà, anzi tutti useranno quel giudizio – compresi quelli che vorranno avversarlo – amplificandone la portata, tanto vale provare a capire cosa succederà. Ovviamente non so quale valutazione faranno i signori di Moody’s.

Ma confesso che se fossi al loro posto ci andrei giù duro. Per due ragioni. Una relativa alla manovra così com’è, e un’altra per come avrebbe dovuto essere. Mi spiego. La manovra nasceva per anticipare di un anno l’azzeramento del deficit, al 2013. Come tale, essa non poteva che essere fondamentalmente congiunturale e potenzialmente recessiva. Certo, sarebbe stato meglio se si fosse concentrata sul taglio della spesa corrente, evitando così di innalzare ulteriormente la pressione fiscale (per Confindustria l’anno prossimo salirà al 44,1%, oltre il record storico del 43,7% toccato nel 1997 in occasione dell’entrata nell’euro).

Ma la filosofia sarebbe rimasta quella: intervenire sullo sbilancio, nonostante sia tra i più bassi tra i paesi dell’euro, e non sul vero nostro fardello, il debito, che tra l’altro aumenta di 10 miliardi al mese (oltre 1911 miliardi il totale a luglio) e ce ne costa 100 in un anno di oneri passivi. Si dirà: ma così ci hanno chiesto Ue e Bce. Vero. Ma non è detto che tutto quello che viene dall’Europa sia oro colato – vista la condizione dell’eurosistema, sarebbe difficile sostenere il contrario – e anche un paese debole, se ha un governo degno di questo nome, può decidere altrimenti.

E dunque sarebbe stato ben più logico e opportuno che si concordasse con i partner europei una forte riduzione dello stock di debito, manovra che per definizione è di tipo strutturale. Così avremmo potuto muovere le leve giuste – dismissioni di patrimonio, assetti del decentramento, previdenza (più strutturale dell’aumento dell’età pensionabile non c’è nulla) – e creare le condizioni per ritagliare spazi di investimenti per la crescita, visto che l’obiettivo è la riduzione del rapporto debito-pil, diminuendo il primo e aumentando il secondo.

Qualche cifra? L’ideale sarebbe una manovra che portasse l’attuale 120% di rapporto debito-pil all’80% (630 miliardi), ma anche all’85% (550 miliardi) o al 90% (470 miliardi), per riaumentarlo di 5-10 punti (a seconda dell’entità dell’abbattimento) per destinare decine di miliardi (da 70 a 160 a seconda dell’ampiezza della manovra) a spese per investimenti. Invece, abbiamo (faticosamente) portato a casa provvedimenti per 54 miliardi (teorici, perché 20 attengono ad una delega fiscale tutta da definire), che già non sono sufficienti. Sia perché gli oneri sul debito sono aumentati di almeno 5 miliardi per via dell’aumento dei rendimenti che siamo costretti a pagare per effetto degli spread, sia perché l’azzeramento del deficit era stato calcolato (ultimo Def) con il pil a +1,1% quest’anno e a +1,3% nel 2012. Ora, proprio ieri abbiamo avuto la conferma che nel secondo semestre la crescita sarà zero, per cui si chiuderà il 2011 con quel misero +0,7% accumulato nella prima parte dell’anno.

Questo significa che lo scarto con quanto previsto dal governo (e considerato dall’Europa) sarà del 36% in meno, cosa destinata a più che peggiorare l’anno prossimo. Lo scarto sarà infatti del 61% in meno se avrà avuto ragione l’Fmi a prevedere una crescita dello 0,5% e addirittura dell’85% se si rivelerà giusta la più pessimistica ipotesi fatta da Confindustria di una crescita (si fa per dire) dello 0,2%.

Ora, in queste condizioni, vi meravigliereste se Moody’s e le altre consorelle del rating di facessero ruzzolare di uno scalino?

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.