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Austerity e crescita

Altro che Krugman

Se è un errore una politica ferocemente restrittiva, non meno sbagliata è una politica opposta, genericamente e costosamente espansiva.

di Enrico Cisnetto - 24 maggio 2013

Eccesso e coraggio non sono sinonimi. E gli eccessi di solito si pagano. Così è successo e rischia di risuccedere all’assai poco audace Europa, che prima ha ecceduto nella logica dell’austerità – e i risultati recessivi si vedono – e ora è spinta a un cambio di rotta di 180 gradi verso un allentamento dei vincoli e il ritorno alla spesa pubblica. Ma così come era ottuso tagliare senza distinzioni, così ora rischia di esserlo altrettanto per ragioni uguali contrarie. In Europa, i governi deboli che non hanno saputo fare le grandi riforme, grazie alle quali contenere i costi eccessivi e non per via di stupide spending review, ora, di fronte all’incontestabile crisi produttiva e occupazionale che l’austerità acefala ha prodotto, vorrebbero continuare a evitarsi il compito gravoso e impopolare delle riforme stesse facendo un po’ di spending. Supportato da Krugman, o meglio speculando sulle sue parole, e guardando all’Abenomics giapponese come alla rivelazione del Messia, il trasversale partito europeo del riprendiamo a spendere liberamente facendo nuovo deficit e debito, ha aperto un contenzioso con la Germania della Merkel (ma ho l’impressione che se al Bundestag avessero la maggioranza i socialdemocratici sarebbe la stessa cosa) per spingere l’eurozona verso quella politica “facile”.

Forse sarebbe il caso di andare a vedere come mai ieri la Borsa di Tokyo ha subito un tracollo di oltre 7 punti, per capire che stampare moneta senza freni e portare il debito al 250% del pil (adesso è al 245%) può produrre una nuova pericolosissima bolla finanziaria. E che per evitarne lo scoppio non è sufficiente la condizione di avere il debito tutto all’interno, che è del Giappone ma non per esempio dell’Italia che il 38% dei titoli di Stato fuori dai confini.

Insomma, se è un errore una politica ferocemente restrittiva – tanto più se per evitare un pericolo che non esiste come l’inflazione (atavica paura tedesca) – come ha indicato lo studio del Fondo Monetario in cui è dimostrato che il moltiplicatore recessivo delle politiche continentali anti-deficit che hanno portato all’apertura delle procedure d’infrazione verso molti paesi dell’eurozona, non è stato come si pensava di mezzo punto ma tra tre e cinque volte tanto, non meno sbagliata è una politica opposta, genericamente e costosamente espansiva. Non perché necessariamente in medio stat virtus, ma una via di mezzo sarebbe molto meglio. Per esempio, in Italia circola l’idea che accettare, anzi sollecitare, la chiusura della procedura d’infrazione, si trasformerà inevitabilmente in vincoli più stringenti. E si cita come più furbe le scelte opposte di Francia e Spagna, che hanno negoziato tempi più lunghi. Può darsi. Ma mi domando: siamo sicuri che ci avrebbe dato più libertà d’azione, quando nel nostro caso a pesare sono il debito che ha superato il 130% del pil e la caduta verticale di credibilità della politica e delle istituzioni? E comunque, non corriamo il rischio che meno vincoli significhi una diminuzione della già ridotta predisposizione a fare le riforme strutturali?

Sono il primo a chiedere da tempo immemorabile che si torni a spendere. Ma facendo investimenti, non spesa corrente. Che, anzi, va ridotta, visto che ha raggiunto il 52% del pil e visto che il peso dello Stato e delle pubbliche amministrazioni sfiora il 60% del valore del pil. E facendo investimenti non a debito, ma anzi riducendolo. Stiamo parlando della necessità mettere in gioco centinaia di miliardi, se si vuole fare quella cura choc evocata da Squinzi ieri all’assemblea di Confindustria, che eviti al sistema produttivo italiano, che ha già perso un quarto della sua capacità di un tempo, di finire nel baratro su cui ciglio sta pericolosamente penzolando. Risorse che il presidente di Confindustria vorrebbe finissero in gran parte a riduzione di tasse (sulle imprese e sul lavoro), e poi a sostegno del credito, a fare infrastrutture e a pagare i costi della sburocratizzazione e della trasformazione della (in)giustizia (in)civile in normale giustizia civile. E che io, invece, vorrei veder spese anche e soprattutto per dar vita a nuove realtà imprenditoriali, sia creando filiere delle esistenti (Cdp, F2i) sia favorendo nuove grandi imprese attestate nei comparti strategici ora non presidiati. Ma che in tutti i casi occorre produrre mettendo mano al patrimonio pubblico e chiamando quello privato a concorrere (obbligatoriamente).

Se poi nell’eurozona si creeranno le condizioni per scorporare la spesa produttiva dal calcolo del deficit, per emettere eurobond e per definire un “industrial compact” attraverso cui realizzare politica industriale a livello continentale – tutte cose che a mio avviso saranno possibili solo facendo preventivamente gli Stati Uniti d’Europa – tanto di guadagnato. Ma intanto facciamo noi i compiti a casa. Con coraggio ma senza eccessi e illusioni.

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