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Crisi economica e guerra politica

Allacciamo le cinture di sicurezza

L'instabilità dell'Italia che non sa crescere

di Enrico Cisnetto - 02 febbraio 2011

Se fosse vero che la crisi in cui è avviluppata la politica italiana, e che da mesi fa ritenere prossime le elezioni anticipate, potrebbe sbloccarsi grazie ad un’intesa bipartisan sulle grandi riforme da fare per rilanciare la nostra economia, allora bisognerebbe addirittura ringraziare quel bunga-bunga e la sua esplosione come caso mediatico-giudiziario, che invece ci nausea ogni giorno di più.

Purtroppo, però, credibilità e probabilità di questo tentativo di “unire le forze” nello sforzo di salvare il Paese dal declino, cui ha fatto riferimento Berlusconi nella sua “lettera al Pd”, sono praticamente pari a zero. Per condividere un piano di riforme, quali che sia, ci vuole un clima politico adatto che va adeguatamente e pazientemente preparato, anche qualora si trattasse non di varare un impegnativo governo di “grande coalizione” ma più semplicemente di stabilire regole di convivenza e di costruttivo confronto tra maggioranza e opposizione.

Qui, invece, siamo alla guerra permanente e senza esclusione di colpi come neppure s’era mai verificato nel primo dopoguerra tra democratici e comunisti (non ci si sarebbe mai neppure sognati di usare come arma le questioni personali). E non è cosa di adesso, ma il portato della (in)cultura politica che ha dominato la Seconda Repubblica fin dalla sua nascita. Eppure, ci sono motivi strutturali e congiunturali che dovrebbero indurre la (si fa per dire) classe dirigente del Paese a cambiare strada. Infatti, ai problemi atavici della nostra economia, aggravati dalla recente recessione, si aggiungo ora una serie di rischi che provengono dai mercati mondiali e che rendono molto seria la situazione.

L’Italia, dal 1992 al 2007 ha visto aumentare la ricchezza mediamente dell’1,4% annuo, cioè di un punto di pil in meno ogni anno rispetto all’Europa e quasi due punti e mezzo rispetto agli Stati Uniti. A ciò si aggiunga che siamo stati l’unico tra i grandi paesi occidentali, oltre al Giappone, ad avere la più lunga e più dolorosa recessione (-6,3% nel biennio 2008-2009) nell’ambito della crisi finanziaria internazionale. Con questo fardello, che la striminzita crescita del 2010 (+1%) non modifica, e cui si aggiunge quello di un debito salito al record storico di 1870 miliardi, l’Italia ha iniziato un 2011 che la Banca d’Italia stima peggiore dell’anno precedente, a fronte di una ripresa mondiale forte e con la Germania in Europa a poter contare su un +3,7% di aumento del pil e il tasso di disoccupazione più basso dal lontano 1992 (7%). Basterebbe vedere i dati diffusi ieri sulle immatricolazioni di auto a gennaio (-20,7% l’intero mercato, -27,7% la Fiat a riprova che non tutti i conti di Marchionne tornano) per capire come anche quest’anno produzione industriale e consumi non assicurano niente di buono.

Ora, in questo quadro già di per sé preoccupante, s’inseriscono una serie di pericoli esterni a noi che rischiano di rendere la situazione ancora più allarmante. Intanto la speculazione che aleggia in Europa sui titoli del debito pubblico. E’ vero che negli ultimi giorni la pressione è scesa, e con essa il differenziale negativo (ieri era 142 punti base dopo aver toccato massimi oltre i 200) che separa i nostri Btp dai bund tedeschi, considerati dagli operatori la pietra di paragone. Ma quel pericolo è sempre in agguato, e la discussione sull’ipotesi di una tassa patrimoniale – avviata non da trinariciuti ma da riformisti come Giuliano Amato e Pellegrino Capaldo – dimostra come il tema di un significativo ridimensionamento del nostro debito pubblico, che nel 2010 rischia di aver superato il 120% del pil, ce lo dobbiamo porre comunque, anche se la speculazione dovesse fermarsi o guardare altrove. Anche perché la linea di rigore imposta dalla Germania indurrà Eurolandia a chiederci politiche ben più drastiche di quelle fin qui praticate (e per fortuna che ci sono state).

L’altro fronte cui badare è quello dei prezzi delle materie prime, e conseguentemente dell’inflazione. Il petrolio viaggia tra i 90 e i 100 dollari al barile. Non è un caso che i prezzi per l’energia nel 2010 abbiano subito incrementi superiori al 12%. Persino il cotone ha raggiunto il prezzo massimo degli ultimi 150 anni. Senza contare il trend delle materie prime di tipo agricolo, che secondo la Fao non erano mai state tanto care: il suo indice globale di 55 beni ha superato a dicembre (+24,5% rispetto a un anno prima) i massimi toccati nel giugno 2008, quando al culmine della crisi alimentare scoppiarono tumulti con vittime da Haiti all’Egitto. E non casualmente proprio al Cairo, come in Tunisia, quelle di questi giorni sono state definite “rivolte del pane”. Così, dopo anni di inflazione ai minimi, torna ad affacciarsi il problema del costo della vita.

In Italia nel 2010 l’inflazione è stata dell’1,5%, il doppio dell’anno precedente. E a dicembre è arrivata all’1,9%, mentre in Europa a gennaio è già salita al 2,4%. Meglio per il debito pubblico, che si riduce in termini reali, peggio per le tasche dei consumatori, che rischiano di lasciare alle solo esportazioni l’ingrato compito di tirare la carretta. Come si vede, tutto dovrebbe indurre la classe politica a sotterrare l’ascia di guerra e trovare punti di convergenza. Invece, tutto congiura perché succeda esattamente il contrario. Allacciare le cinture di sicurezza.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.