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Le anticipazioni dell’Economic Outlook 2005

All’Italia serve un patto sociale

Anche l’Ocse stima al ribasso l’economia italiana. Ma finché non cambia la politica...

di Enrico Cisnetto - 25 maggio 2005

Nuova doccia fredda sull’economia italiana. Come se non fosse bastata la tirata d’orecchie di Eurostat, l’istituto che vigila sulle statistiche pubbliche in Europa, che lunedì parlando di “discrepanze nel bilancio dello Stato” ha rivisto al rialzo il deficit e il debito del 2003 e 2004, mettendoci così nella condizione di subire la peraltro già preannunciata procedura d’infrazione da parte di Bruxelles, ieri è arrivata l’Ocse a darci cattive notizie. Secondo i suoi economisti l’Italia rimarrà per l’intero anno in recessione, chiudendolo con una regressione del pil dello 0,6%, soprattutto a causa di una perdita di competitività del nostro sistema produttivo che negli ultimi 4 anni è calata del 25%, e ciò comporterà di ritrovarsi con un rapporto deficit-pil del 4,4%, cioè ben oltre la soglia del 3,6%-3,7% considerata invalicabile dal governo. Intendiamoci, è da tempo che le previsioni dell’Ocse fanno cilecca, tanto è vero che se si confrontano gli ultimi dati con quelli di sei mesi fa, si vedono cambiamenti che consolano gli svarioni previsionali del nostro governo. Tuttavia, questa volta essi appaiono credibili, e comunque da non sottovalutare. Io stesso, d’altra parte, da queste colonne solo qualche giorno fa avevo messo in guardia dall’idea che la recessione fosse passeggera e che alla fine la speranza del ministro Siniscalco di chiudere l’anno una crescita dello 0,6% si sarebbe rivelata ottimistica. E in tutti i casi, delle indicazioni fornite ieri più che le crude cifre, vanno prese tre cose: la tendenza, che permane non solo negativa ma nettamente peggiore rispetto all’intera Europa (destinata a realizzare un +1,2% quest’anno e un +2% nel 2006, quando all’Italia è accreditato un misero +1,1%); l’allarme per il fatto che almeno la metà dei paesi Ue hanno deficit superiori al fatidico tetto del 3% del pil, facendo intuire che sarebbe bene darsi una nuova strategia continentale se non si vuole continuare a tirar fuori sterili cartellini gialli e rossi di punizione; il suggerimento fornito dalla stessa Ocse, quando incita l’Italia a darsi un “patto sociale”.

A ben pensarci, tutte e tre gli spunti colpiscono lo stesso bersaglio: il nostro sistema politico. E’ ad esso che va indirizzato il suggerimento di accantonare i residui ottimismi fuori luogo, che ci hanno impedito di vedere in faccia la realtà di affrontarla. Basti pensare che ieri, a commento dei dati Ocse, il ministro Calderoli se ne è uscito dicendo che “sono già dieci giorni” che il governo ha individuato i fattori che determinano il rallentamento economico e le relative contromisure – peccato che del declino e delle sue cause si parli dal 2000 – mentre dai Ds altro non è venuto se non la solita litania sulla necessità di “tutelare i redditi medio-bassi e rilanciare le imprese”, come se bastasse evocare questi obiettivi per raggiungerli. Ma anche la questione dei patti di stabilità ci riconduce alla nostra politica. Infatti, da un lato c’è il governo Berlusconi, la cui politica estera non ha certo guardato alla costruzione di quella rete di relazioni all’interno dell’Europa indispensabile per metterci al riparo dagli interessi altrui. Spesso il governo ha fatto riferimento a questi interessi: non sbagliava, ma compito di una classe dirigente degna di questo nome è saper tutelare gli interessi nazionali, non imprecare contro quelli altrui. Finché non avremo portato il processo unitario al compimento degli Stati Uniti d’Europa, il Vecchio Continente sarà sempre la somma di interessi (egoismi) nazionali, e ognuno fa il suo gioco. Non fare il proprio, limitandosi a criticare chi invece lo fa, è un suicidio. Noi non abbiamo conquistato Bruxelles, come per esempio gli spagnoli, né dopo aver creato l’euro abbiamo spinto l’asse franco-tedesco all’unificazione politico-istituzionale. Cosa che, dall’altro lato, non ha fatto neppure Prodi, che pure per cinque anni è stato presidente della Commissione Ue. Se gli italiani, facendogli grazia del periodo a palazzo Chigi, dovessero giudicarlo solo per quell’esperienza – che avrebbe potuto essere straordinariamente decisiva sia per l’Europa che per l’Italia – avrebbero ragione ad essere inclementi.

Infine la questione del “patto sociale”: come si fa a sottoscriverne uno, quale che siano i suoi contenuti, se la politica è solo impegnata, in entrambi i fronti, a discutere dei propri assetti in funzione della vittoria elettorale, unico obiettivo gettonato. Un bipolarismo che genera scontro ideologico (senza le ideologie!) e una campagna elettorale permanente, non ha certo né il tempo né la capacità di occuparsi della recessione e del declino. Al massimo li usa per bassa polemica, come puntualmente è successo ieri con i dati dell’Ocse.

Pubblicato sul Gazzettino e La Sicilia del 25 maggio 2005

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