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Il vero problema non è la Grecia ma l'euro

Al via la "fase due" della crisi

Per questo serve convocare una nuova Maastricht

di Enrico Cisnetto - 07 maggio 2010

E’ un vero peccato che in calce alla lettera spedita da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy al presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, e al presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, non ci sia la firma di Silvio Berlusconi. Non per quanto c’è scritto – le valutazioni che vi sono espresse appaiono piuttosto scontate e le proposte ancora troppo timide – ma per il carattere evocativo e il significato politico dell’iniziativa franco-tedesca, tanto più importante perché arriva al termine di una fase che ha visto i due più importanti paesi dell’eurozona nettamente e pericolosamente divisi.

Perché non c’è dubbio che sia partita la “fase due” della crisi innescata dal “caso Grecia”, e non c’è dubbio che la posta in palio sia o la rifondazione dell’eurosistema o la dipartita della moneta unica e con essa dell’Europa come soggetto che tende ad essere unitario. Dunque, oggi sul tavolo dei membri dell’euroclub c’è la risposta da dare non solo all’attacco speculativo contro il debito sovrano greco, e ora di altri paesi, ma anche e soprattutto alle gravi carenze strutturali sia dell’euro sia della stessa costruzione comune europea. Per questo, nel momento in cui, pur con tutti i loro limiti, Germania e Francia si muovono congiuntamente, l’assenza dell’Italia – che immagino sia dovuta a mancanza di chiamata – appare non solo come un’occasione mancata, ma anche un brutto segnale a quei mercati che vanno cercando ogni più piccolo appiglio cui agganciare i loro intenti speculativi.

Già, sui mercati è davvero partita una nuova fase dell’attacco all’euro. E in modo clamoroso. A fischiare l’inizio del secondo tempo è stata, guarda caso, una delle “tre sorelle” del rating, Moody’s, che ieri mattina se ne è uscita sostenendo l’esistenza di un rischio di contagio della crisi finanziaria greca per le banche portoghesi, spagnoli, italiane e inglesi.

Una bomba che non poteva non esplodere sia nelle Borse continentali – dove i titoli bancari hanno trascinato i listini nel precipizio, con Milano in testa (-4,27% dopo aver perso fino al 6%) – sia sul mercato dei cambi – dove l’euro è scivolato sotto 1,27 sul dollaro per la prima volta da marzo 2009 – e sia infine sul mercato dei titoli di stato, in cui lo spread dei bond greci è tornato sopra gli 800 punti base (vicino al record di 827 del 28 aprile) e quello italiano in pochi ore è arrivato a quota 143. Così ora non ci sono più dubbi: la grande liquidità che si è formata sui mercati internazionali, anche grazie a tassi d’interesse che rimangono vicini allo zero, nella sua spasmodica ricerca di spazi speculativi visti gli scarsi rendimenti che si riesce a spuntare su qualsiasi investimento, dopo aver sperimentato con successo l’incursione sulla Grecia, ha dichiarato guerra (di fatto) agli altri anelli deboli dell’eurogruppo.

Come reagire? Sicuramente evitando di ripetere gli errori di valutazione commessi in queste ultime settimane di fronte al caso Grecia. Il più importante dei quali è stato quello di credere – fino a poche ore fa – che il tema fosse Atene. Non è il tema è l’euro, e su quel terreno occorre organizzare la risposta. Come? Dichiarando che Maastricht è finita, e convocando 18 anni dopo una “Maastricht 2” nella quale fare sostanzialmente quattro cose. Primo: dotarsi di una struttura federale, gli Stati Uniti d’Europa, con un governo eletto direttamente dai cittadini cui vengono conferiti una parte importante dei poteri ora in mano alle singole cancellerie. Passo indispensabile per unificare le politiche economiche e dare scopo unitario a quella monetaria. Secondo: riscrivere le regole d’ingaggio della Bce, sullo schema della Federal Reserve americana. Terzo: nel frattempo che questi impegnativi obiettivi vengono raggiunti – attraverso un processo graduale ma veloce – varare una serie di misure congiunte che, da un lato, servano a ridurre il debito pubblico accumulato, e dall’altro vadano nel senso di una maggiore omogeinizzazione dei sistemi industriali, fiscali, e di welfare.

Per esempio, una comune riforma previdenziale che unifichi l’età pensionabile (a Bruxelles si è già cominciato a discuterne, e intorno ad un’ipotesi di mandare in pensione a 70 anni uomini e donne). Quarto: definire una comune proposta per la ridefinizione delle regole che devono sovraintendere al funzionamento del sistema finanziario mondiale, da portare al tavolo con gli Usa e le altre grandi potenze.

Progetti difficilissimi, lo so, ma che hanno solo un’alternativa, come hanno ben chiarito Jacques Attali e Nouriel Roubini: il fallimento dell’euro. L’Italia, che si è riconquistata una certa credibilità con la politica di riequilibrio dei conti pubblici, può porre la questione. Magari già al vertice di oggi a Bruxelles. E non per generico europeismo, ma per sano istinto di conservazione. A patto che non abbia la testa altrove.

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