Basta con la propaganda. Ora è tempo di agire
Aiutiamo il carrozzone Italia
La riforma fiscale può e deve essere fatta subitodi Davide Giacalone - 15 gennaio 2010
La riforma fiscale può e deve essere fatta subito. Anche perché un sistema non può essere definito “iniquo”, dal presidente del consiglio e dal ministro dell’economia, senza che gli stessi non s’impegnino a cambiarlo. Il governo ha pasticciato, perché non ha saputo distinguere, come qui noi avevamo fatto, fra sistema e pressione fiscale. Crisi, debito e spesa pubblica non sono novità delle ultime ore. Proviamo, allora, ad usare la ragione e individuare il modo per realizzare, subito, quel che è promesso d
al 1994.
Intanto, non prendiamoci in giro: la crisi economica c’entra poco e niente. L’Italia perde competitività, cresce al rallentatore, da quindici anni. Se anche cancellassimo l’ultimo, che è stato di recessione, i nostri guai resterebbero intatti. Anzi, dato che abbiamo affrontato la crisi scegliendo, saggiamente, di non spendere, abbiamo visto crescere i debiti pubblici altrui e, comunque, programmi di alleggerimento fiscale sono all’esame di diversi Paesi europei, proprio per uscire dalla crisi, non per festeggiare la sua fine. Nell’anno appena iniziato il prodotto interno tornerà a crescere. E’ dunque finita la crisi e facciamo la riforma? Neanche per idea, perché con crescite nell’ordine dello zero virgola o uno per cento, a spesa pubblica costante la pressione fiscale non potrà scendere mai. Se il fisco serve per alimentare la spesa, così come l’eroina evita al drogato la crisi d’astinenza, l’ipotesi che siano le condizioni esterne a far calare le pere equivale a rassegnarsi a morire per overdose. Spero sia sufficientemente macabro.
Siamo, invece, tenuti ad affrontare, subito, i due corni del problema: da un lato la spesa pubblica e dall’altra lo sviluppo. La prima deve essere largamente riqualificata, perché non solo spendiamo un sacco di soldi inutilmente, ma molti sono destinati a creare, anziché risolvere problemi. La spesa pubblica non è un blocco unitario e non distinguibile: c’è quella utile, quella di cui non si può fare a meno e quella che genera solo burocrazia e clientelismo. Quest’ultima non è indifferente, perché la spesa che non crea sviluppo oggi genera miseria domani, come il debito pubblico testimonia. Tagliare la spesa pubblica non significa diminuire i budget di ciascuna amministrazione, ma riformare la macchina amministrativa e la concezione stessa di molti servizi (il tutto gratis a tutti, del nostro servizio sanitario, è un lussuoso non senso). Si può e si deve farlo subito.
Poi c’è l’altro corno, relativo allo sviluppo. Se perdiamo competitività da anni è segno che vi sono cause strutturali, riassumibili in tre categorie: a. viscosità del mercato, sia del lavoro che dei capitali; b. incertezza del diritto; c. perpetua follia di salvare i terminali dalla morte anziché agevolare le nascite. Sappiamo cosa fare, ma occorre lucidità politica e determinazione, perché gli unici a protestare saranno i danneggiati, quanti campano di rendite di posizioni, sia nel mondo del lavoro che dell’impresa, mentre il vero grande beneficiato, ovvero l’interesse collettivo, e con quello i giovani, taceranno, quando non, bovinamente, s’accoderanno agli interessi dei propri carnefici. A queste riforme deve sommarsi spesa pubblica virtuosa, destinata ad investimenti nell’innovazione e nelle infrastrutture. Spesa che, con masochistica noncuranza, è proprio quella più tagliata e rinviata.
La materia fiscale è solo un pezzo del puzzle, ma è anche una potentissima arma di scambio. Per intenderci: molti hanno alzato il sopracciglio, temendo che Berlusconi volesse usarla per far propaganda, noi, invece, pensiamo che debba essere usata esattamente per quello. Propagando, subito, la possibilità di pagare meno tasse, ma la subordino al ricorrere di determinate condizioni, le quali non devono piovere dal cielo, ma dipendono dalle azioni del governante e del legislatore e dalla risposta dei cittadini tutti. Quindi, ad esempio: sì, è vero, rendendo più elastico il mondo del lavoro, consentendo ad un numero maggiore di giovani e di donne di entrarvi, diminuisco le garanzie in capo a ciascun lavoratore, ma diminuisco anche le tasse sul reddito, consentendo ai salari di crescere.
La propaganda è inutile, anzi stucchevole, quando è solo parolaia, diventa preziosa se serve a creare consenso, e aggregare interessi, attorno alle riforme di cui abbiamo bisogno. Tutto questo, però, si deve farlo subito, immediatamente. Perché se aspetto che il cielo schiarisca, il vento si calmi, gli uccellini cinguettino, anche ammesso che ‘sta roba si realizzi, a quel punto mi serve un anno per cambiare il fisco, sempre che la maggioranza non si sia sfilacciata prima, su questioni che definire secondarie è infinitamente generoso. Guardate il calendario, e vi renderete conto che, a due anni dalle scorse elezioni, quel che non si fa quest’anno non si fa più.
Pubblicato da Libero
al 1994.
Intanto, non prendiamoci in giro: la crisi economica c’entra poco e niente. L’Italia perde competitività, cresce al rallentatore, da quindici anni. Se anche cancellassimo l’ultimo, che è stato di recessione, i nostri guai resterebbero intatti. Anzi, dato che abbiamo affrontato la crisi scegliendo, saggiamente, di non spendere, abbiamo visto crescere i debiti pubblici altrui e, comunque, programmi di alleggerimento fiscale sono all’esame di diversi Paesi europei, proprio per uscire dalla crisi, non per festeggiare la sua fine. Nell’anno appena iniziato il prodotto interno tornerà a crescere. E’ dunque finita la crisi e facciamo la riforma? Neanche per idea, perché con crescite nell’ordine dello zero virgola o uno per cento, a spesa pubblica costante la pressione fiscale non potrà scendere mai. Se il fisco serve per alimentare la spesa, così come l’eroina evita al drogato la crisi d’astinenza, l’ipotesi che siano le condizioni esterne a far calare le pere equivale a rassegnarsi a morire per overdose. Spero sia sufficientemente macabro.
Siamo, invece, tenuti ad affrontare, subito, i due corni del problema: da un lato la spesa pubblica e dall’altra lo sviluppo. La prima deve essere largamente riqualificata, perché non solo spendiamo un sacco di soldi inutilmente, ma molti sono destinati a creare, anziché risolvere problemi. La spesa pubblica non è un blocco unitario e non distinguibile: c’è quella utile, quella di cui non si può fare a meno e quella che genera solo burocrazia e clientelismo. Quest’ultima non è indifferente, perché la spesa che non crea sviluppo oggi genera miseria domani, come il debito pubblico testimonia. Tagliare la spesa pubblica non significa diminuire i budget di ciascuna amministrazione, ma riformare la macchina amministrativa e la concezione stessa di molti servizi (il tutto gratis a tutti, del nostro servizio sanitario, è un lussuoso non senso). Si può e si deve farlo subito.
Poi c’è l’altro corno, relativo allo sviluppo. Se perdiamo competitività da anni è segno che vi sono cause strutturali, riassumibili in tre categorie: a. viscosità del mercato, sia del lavoro che dei capitali; b. incertezza del diritto; c. perpetua follia di salvare i terminali dalla morte anziché agevolare le nascite. Sappiamo cosa fare, ma occorre lucidità politica e determinazione, perché gli unici a protestare saranno i danneggiati, quanti campano di rendite di posizioni, sia nel mondo del lavoro che dell’impresa, mentre il vero grande beneficiato, ovvero l’interesse collettivo, e con quello i giovani, taceranno, quando non, bovinamente, s’accoderanno agli interessi dei propri carnefici. A queste riforme deve sommarsi spesa pubblica virtuosa, destinata ad investimenti nell’innovazione e nelle infrastrutture. Spesa che, con masochistica noncuranza, è proprio quella più tagliata e rinviata.
La materia fiscale è solo un pezzo del puzzle, ma è anche una potentissima arma di scambio. Per intenderci: molti hanno alzato il sopracciglio, temendo che Berlusconi volesse usarla per far propaganda, noi, invece, pensiamo che debba essere usata esattamente per quello. Propagando, subito, la possibilità di pagare meno tasse, ma la subordino al ricorrere di determinate condizioni, le quali non devono piovere dal cielo, ma dipendono dalle azioni del governante e del legislatore e dalla risposta dei cittadini tutti. Quindi, ad esempio: sì, è vero, rendendo più elastico il mondo del lavoro, consentendo ad un numero maggiore di giovani e di donne di entrarvi, diminuisco le garanzie in capo a ciascun lavoratore, ma diminuisco anche le tasse sul reddito, consentendo ai salari di crescere.
La propaganda è inutile, anzi stucchevole, quando è solo parolaia, diventa preziosa se serve a creare consenso, e aggregare interessi, attorno alle riforme di cui abbiamo bisogno. Tutto questo, però, si deve farlo subito, immediatamente. Perché se aspetto che il cielo schiarisca, il vento si calmi, gli uccellini cinguettino, anche ammesso che ‘sta roba si realizzi, a quel punto mi serve un anno per cambiare il fisco, sempre che la maggioranza non si sia sfilacciata prima, su questioni che definire secondarie è infinitamente generoso. Guardate il calendario, e vi renderete conto che, a due anni dalle scorse elezioni, quel che non si fa quest’anno non si fa più.
Pubblicato da Libero
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.