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Ma con meno luoghi comuni e più rigore

Affrontare la sfida cinese è possibile

La risposta deve essere politica, ma solo se basata su studi attendibili

di Giuseppe Iannini - 04 luglio 2005

La minaccia cinese è ormai un tema ricorrente del dibattito economico nel nostro paese e in Europa. Come è noto, il pericolo rappresentato dall’aggressività dell’export manifatturiero della Cina e, in generale, dalla incredibile capacità di imitazione e di adeguamento del suo apparato produttivo ha indotto recentemente l’Unione Europea ad adottare misure restrittive dei flussi commerciali con questo paese, previsti peraltro dalle normative europee e dai trattati stipulati in sede di WTO a scopo di salvaguardia dei settori domestici minacciati da una concorrenza slealmente aggressiva. . Misure ancora più energiche sono state adottate dal governo statunitense anche per ritorsione nei confronti del rigido atteggiamento delle autorità cinesi sulla questione della rivalutazione della loro moneta nazionale. Nel nostro paese la querelle dilaga e impegna quasi quotidianamente giornalisti, accademici, operatori economici e, soprattutto, politici, solleciti ad agitare un problema che si configura sempre di più come il tanto temuto pericolo”giallo” nell’immaginario della gente comune e dei lavoratori dei settori esposti alla concorrenza internazionale(e non solo di quelli). Senza fare nomi e citare etichette, la variegata schiera dei commentatori si può dividere grossolanamente in due partiti. Da una parte il partito di coloro che ritengono la sfida cinese un effetto naturale della liberalizzazione dei mercati e della globalizzazione, legato cioè alla inevitabile nuova divisione del lavoro che è seguita allo smantellamento delle barriere commerciali, dall’altra quello di coloro che al contrario rivendicano la necessità di ripristinare solide barriere difensive per evitare la sparizione di interi settori produttivi. I primi sostengono con convinzione la necessità di imboccare la strada dell’innovazione tecnologica e del miglioramento qualitativo del capitale umano, i secondi mostrano un certo scetticismo sulla capacità di convertire con sufficiente rapidità consolidati modelli produttivi e puntano il dito contro le inaccettabili condizioni delle relazioni industriali e la mancanza di democrazia economica di quel paese. Caratteristiche queste che lo farebbero assomigliare ad una immensa “caserma”produttiva, come ha commentato recentemente il presidente di un’ importante associazione di categoria sulla prima pagina di un quotidiano economico nazionale a larga diffusione. Purtroppo la realtà è un po’ più complicata e forse richiederebbe una dose maggiore di umiltà intellettuale, soprattutto in ragione del fatto che il tema presenta un groviglio di problemi la cui interpretazione dovrebbe suggerire perlomeno la virtù del dubbio. Non pretendendo e non essendo in grado di dare risposte certe, riteniamo corretto ricordare che allo stato attuale scarsi sono i tentativi di stimare gli effetti dello sviluppo economico cinese sulle grandi aree economiche del mondo. Tali analisi, per essere significative, implicano la messa a punto di modelli econometrici così complessi, soprattutto se proiettati nel lungo periodo, da giustificarne la rarefazione nell’ambito degli studi di economia internazionale. Consapevoli di tale lacuna, possiamo tuttavia trarre qualche utile indicazione dal poco che la letteratura economica offre. Un articolato e sofisticato lavoro di Warwick J. McKibbin e Wing Thye Woo, The Global Economic Impact of China's Accession to the WTO, Ocde 2004, giunge alle seguenti conclusioni: - l’impatto più rilevante dello sviluppo economico cinese si verificherà soprattutto sulle economie asiatiche. In particolare i paesi Asean 4(Filippine,Tailandia, Indonesia, Malaysia) subiranno considerevoli perdite in termini di Pil sia nel breve che nel lungo periodo(fino al 2020), mentre sulle altre economie asiatiche più sviluppate(Giappone compreso) l’impatto sarà moderatamente positivo. A fronte di ciò si evidenzia l’incredibile performance dell’economia cinese con un aumento del Pil del 25%; - tale scenario si basa sull’ipotesi di spillover tecnologico associato al dirottamento a favore della Cina dei flussi di investimenti diretti(Ide) prima diretti agli Asean 4. L’ipotesi è che ai paesi asiatici appartenenti a tale sottogruppo siano necessari almeno 10 anni per recuperare il gap tecnologico conseguente a questo spiazzamento. - per i paesi Ocde più sviluppati si prevede uno scenario prospettico neutrale in quanto la perdita di quote di produzioni mature a favore della Cina sarebbe compensata, analogamente agli altri paesi dell’area asiatica più sviluppati, da un saldo dell’interscambio positivo nel settore dei beni capitali e dei servizi avanzati. Interscambio con la Cina che, per i paesi Ocde sviluppati, rimane tuttavia relativamente modesto e quindi tale da non incidere in maniera rilevante sull’evoluzione dei “fondamentali” macroeconomici. Ovviamente tali conclusioni si basano su una quantità di ipotesi(invarianza del regime e del tasso di cambio della valuta cinese, continuità nei tassi di sviluppo cinese, stabilità macroeconomica e politica di quel paese, assenza di ritorsioni commerciali.ecc.) la cui plausibilità rappresenta una fragile condizione della significatività del modello. Nonostante la mancanza di specificazione di effetti disaggregati(soprattutto a livello di rapporti bilaterali), tale studio ci consente di porre alcune domande cruciali sulla sorte della nostra economia. Innanzitutto, pur scontando un impatto di gran lunga inferiore rispetto a quello considerato dal modello per i paesi Asean 4, assai più direttamente integrati nell’area commerciale e finanziaria Cina-Asia sudorientale-Giappone, è lecito chiedersi in che misura in nostro sistema produttivo presenta elementi di analogia con quello di questi paesi, ancora fortemente orientati verso produzioni mature e non più competitive rispetto a quelle cinesi. In che misura inoltre i paesi europei, anche se questo non è il caso dell’Italia, paese purtroppo alquanto marginale nell’ambito del circuito degli investimenti diretti esteri, sono immuni dallo spillover tecnologico rappresentato dagli Ide che potrebbero bypassare l’Europa per dirigersi sul suolo cinese? Se sono necessari dieci anni per attrezzarsi tecnologicamente allo scopo di poter competere su un piano più elevato rispetto alle produzioni mature ormai fuori gioco, il puntare su innovazione e ricerca(obiettivo che ragionevolmente, anche se spesso approfondito superficialmente, costituisce ormai il “mantra” di politici e di commentatori delle nostre vicende economiche ) non ci impone forse di considerare al contempo scenari non rassicuranti per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali che dovremo metter in campo per gestire una transizione di lungo periodo che interesserà segmenti non secondari del mercato del lavoro e alcuni importanti comparti del nostro apparato industriale ? Altre numerose domande potrebbero essere poste, ma mi fermo qui nella speranza che il dibattito su “noi e la Cina” possa essere incanalato su basi più scientificamente fondate e meno influenzato da elementi che con l’analisi economica non hanno niente a che vedere.

Prof. Giuseppe Iannini Docente di Economia Monetaria Università di Pavia

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