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Sicuramente sarà incline alla moderazione

Adesso il presidente è lui. Basta

Il garante della Costituzione, ma non è detto che debba essere questa Costituzione

di Enrico Cisnetto - 12 maggio 2006

Sono dell’avviso che i presidenti della Repubblica siano come le sentenze definitive: si accettano, punto e basta. Dunque Giorgio Napolitano è il Presidente di tutti gli italiani, e non mi sembra opportuno mantenere aperto, ora che è stato eletto, un fronte di polemica e di scontro sul suo nome e sulle modalità della sua nomina. Anche perchè, francamente, è ridicolo lamentare il mancato rispetto di metodi, veri o presunti, che avrebbero dovuto rendere condivisa la scelta del nuovo Capo dello Stato: credere che un bipolarismo immaturo e becero potesse generare un passaggio istituzionale “normale”, sarebbe stato come avere la presunzione di cavare il sangue dalle rape. Dunque non è (o non è solo) l’egoismo del centro-sinistra ad aver determinato la scelta di Napolitano, ma sono le contraddizioni del sistema politico che altro non avrebbero potuto produrre. Naturalmente, ho osservato il generoso tentativo di Giuliano Ferrara di rompere il gioco con la candidatura “da destra” di Massimo D’Alema, e al netto dell’intenzione presidenzialistica che a un certo punto l’ha caratterizzata – per via dei contenuti dell’intervista di Piero Fassino a questo giornale – l’ho anche condivisa. Ma era purtroppo ben evidente che la lettura simmetrica data da Romano Prodi (“abbiamo vinto”) e da Silvio Berlusconi (“non abbiamo perso, anzi siamo i vincitori morali”) al “pareggio” elettorale – a conferma di un asse di fatto tra i due emblemi del bipolarismo fallito che dura dal momento del ritorno da Bruxelles del Professore – non lasciava spazio a soggetti che avrebbero potuto (almeno teoricamente) recitare al Quirinale una parte diversa da quella messa in scena prima da Carlo Azeglio Ciampi e ora (presumibilmente) da Napolitano. Non avevamo e non abbiamo bisogno di notai che, interpretando in chiave formale il ruolo di “garante della Costituzione”, finiscono col rendere immodificabile lo status quo, bensì di uomini politici che abbiano chiaro il livello degenerativo raggiunto da un sistema imperniato su ciò che Giulio Andreotti efficacemente chiama “i due benedetti poli in cui si è cacciata la politica italiana”. Naturalmente, meglio, molto meglio, uomini dall’inclinazione moderata, consci (a volte anche fin troppo) che la “imparzialità percepita” non è meno importante di quella reale, come appunto i presidenti che lunedì si daranno il cambio, piuttosto che i fondamentalisti alla Oscar Luigi Scalfaro. E poi, va anche detto che era ed è difficile indicare un nome di uno statista capace di rispettare i limiti formali del mandato presidenziale ma nello stesso tempo di usarne l’elasticità sostanziale per favorire l’avvio di un processo politico e istituzionale nuovo che io amo chiamare Terza Repubblica, al di là di quello di Giuliano Amato, che pur con tutti i difetti che gli si possono e vogliono attribuire rimane(va) l’unico con il physique du rôle giusto.
Tuttavia, le cose sono andate così, e ora Napolitano – che è molto meglio di come il becerume di destra lo descrive, ma anche peggio di come il conformismo imperante lo dipinge – è il Presidente, cui va portato il rispetto che si deve a chi rappresenta la Nazione. E al quale è comunque lecito chiedere un coraggioso impegno istituzionale: quello di difendere la Costituzione (che non significa necessariamente questa Costituzione) favorendo le condizioni per la convocazione di un’Assemblea Costituente. Il 25 giugno, infatti, andremo a votare per decidere se mantenere o cancellare la devolution, seconda grave ferita inferta alla carta suprema dopo la riforma del titolo V. Quale che sia l’esito di quel referendum – e io auspico che vinca il No – sarà però necessaria una sanatoria, sia sotto il profilo del merito (occorre fermare la demenziale deriva di un federalismo lacerante e moltiplicatore di costi), che quello del metodo, visto che non è proprio più tollerabile che le regole comuni siano modificate a colpi di maggioranza, accreditando l’idea malsana che ad ogni cambio di legislatura si debba ricominciare tutto daccapo, a tutto danno della (residua) autorevolezza e credibilità dello Stato. All’obbligo di questo lavoro riparatore si aggiungono poi altre necessità che vanno nella direzione di una Costituente. In primo luogo quella relativa alla funzionalità delle istituzioni pubbliche: siamo un paese pletorico – sono stati censiti 120 livelli istituzionali diversi – e dunque costoso e farraginoso in termini di assunzione di responsabilità. Per esempio, bisognerebbe ridurre il numero delle regioni, dando loro dimensioni tipo quelle dei länder tedeschi, abolire le province, accorpare i comuni più piccoli e creare le grandi aree metropolitane nelle 5-10 maggiori città. Mentre a livello centrale, andrebbe disboscata molta burocrazia. Il secondo motivo per cui è necessaria l’Assemblea che riscrive le regole attiene all’economia: dovendo cambiare il nostro modello di sviluppo e il sistema di welfare, ed essendo improcrastinabile un drastico intervento sulla finanza pubblica, e in particolare sul debito, è impossibile fare tutto ciò senza quella che Alberto Quadrio Curzio definisce una “Convenzione costituente per l’economia”. Ora, è pensabile che questa meritoria opera di trasparenza la possa fare il Parlamento, per di più spaccato a metà? E se no, possiamo ancora permetterci di rinviare? I concetti espressi a caldo dal neo-Presidente all’ottimo Cazzullo sul Corsera fanno davvero ben sperare. Spero solo che, nei fatti, Napolitano sia più coraggioso di quanto non abbia mostrato nell’autobiografia scritta per Laterza di recente. Forza, Presidente.

Pubblicato sul Foglio del 12 maggio 2006

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