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Gli echi di ricordi e i raffronti di epoche passate

A rischio sono i risparmi degli italiani

Torna la lottizzazione ma dov’è l’opposizione?

di Angelo De Mattia - 20 aprile 2010

Abbiamo vinto e, allora, ci tocca una fetta di banche: è l’ultima esternazione di Umberto Bossi, per coloro che avessero dubbi sul valore che la Lega annette alle dichiarazioni (dello stesso Bossi, di Zaia, di Tosi ) sugli istituti di credito e alle mosse dei suoi esponenti in questi giorni. E’ seguita la vicenda che sta vedendo protagonista la Compagnia S.Paolo di Torino in ordine a un irrituale intervento sulla formazione del Consiglio di gestione della partecipata Intesa/S.Paolo.

Corsi e ricorsi storici , dunque, nei tentativi di spoil system all’italiana, che si poteva ritenere da tempo ormai superato. Le dichiarazioni di Umberto Bossi sulle banche stimolano i ricordi e i raffronti con epoche passate. Quando ancora dominava la distinzione tra le banche pubbliche e quelle private, in vigenza della legge bancaria del 1936, e si riteneva che per gli organi delle prime valessero le stesse responsabilità previste per il pubblico ufficiale con il conseguente regime sanzionatorio, la selezione dei vertici degli enti pubblici creditizi - sulla base di normative del 1938 -avveniva attraverso una rigorosa procedura lottizzatoria attivata dai partiti di governo adottando una sorta di meticoloso manuale Cencelli bancario (ispirato a quello in uso per l’attribuzione degli incarichi nell’Esecutivo ).

L’istituto di credito pubblico doveva essere funzionale alla politica economica, nonostante la difesa dell’autonomia del banchiere operata dalla Banca d’Italia, quando non addirittura strumento di tale politica. Alla fin fine, si affermava l’assoggettamento del banchiere pubblico alle norme sul peculato e sulla concussione, anche se gli studi avviati in dottrina alla fine degli anni ’60 tendevano ad asserire l’omogeneità della banca pubblica e di quella privata , considerata la comune attività imprenditoriale (antesignano fu l’autorevole giurista Giuseppe Guarino).

Per gli istituti di credito di diritto pubblico e le casse di risparmio, le nomine dei presidenti e dei vice presidenti erano di competenza del Ministro del tesoro, previa delibera del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio(Cicr).

Accadeva, allora, che i partiti di governo negoziassero strenuamente tra di loro i rispettivi “feudi” bancari, naturalmente secondo le priorità da assegnare alle formazioni partitiche che avevano il maggior peso. Le trattative erano particolarmente laboriose quando governava il pentapartito, essendo necessaria una suddivisione per cinque della torta da spartire, sia pure sulla base del suddetto criterio di proporzionalità.

La maggior parte delle cariche di vertice nelle principali banche spettava, così, alla Democrazia cristiana; a distanza, seguiva il Partito socialista e, poi, gli altri partiti. Ai più piccoli venivano assegnati gli incarichi nelle aziende di credito minori: ricordo che al Partito socialdemocratico spettava la presidenza della più piccola delle casse di risparmio dell’epoca, quella di Vignola.

La forza della D.C. era nel suo insediamento, in particolare, nel mondo delle casse di risparmio. Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti, annetteva così tanta importanza a questo radicamento da affermare, non così scherzosamente, che avrebbe voluto che l’emblema delle casse fosse inserito nel logo del partito.

Quel mondo orientava, in qualche modo, le economie dei territori e influenzava le scelte politiche, ma anche il vivere delle comunità locali, considerato che si trattava di un centinaio di aziende di credito diffuse in Italia, in specie al Nord. Guido Carli sottolineava come in queste ultime aree vi fosse una cassa per ogni campanile ( e già allora si cominciavano a porre i primi problemi, se non le necessità, di concentrazione bancaria).

A un certo punto si pensò di rendere meno brutale il metodo della spartizione e si previde, con una mozione parlamentare della fine degli anni ’70, che sulle nomine ministeriali vi sarebbe stato, prima della formalizzazione, il successivo parere obbligatorio, ma non vincolante delle Commissioni finanze e tesoro delle Camere.

Accanto a qualche scopo apprezzabile, vi era, nella decisione, l’intento di conseguire in sede parlamentare delle convergenze tipiche del consociativismo, nelle quali poteva anche esservi uno spiraglio per la designazione – rarissima avis – di un banchiere rosso.

In seguito, fu stabilito che la Banca d’Italia, che in base alla legge aveva il potere di proposta delle nomine nelle casse di risparmio, peraltro mai effettivamente esercitato per l’invadenza lottizzatoria della politica, presentasse delle terne, nelle quali si sarebbero poi scelti gli esponenti da designare.

Le informazioni che si ricevevano, ai fini della predisposizione delle terne, anche per le più piccole casse, erano a volte esilaranti; in altri casi, riguardavano personaggi assolutamente improbabili. Non mancarono le circostanze - alcune clamorose - nelle quali il Cicr decise nomine fuori dalle suddette terne ( una concernente una proposta addirittura di sei nomi che non furono ritenuti sufficienti ).

Vi fu una seduta del Cicr, ricordata come quella dei “lunghi coltelli”, nella quale vennero nominati 120 esponenti, tra presidenti e vice presidenti. Il numero era lievitato ricorrendo alla “prorogatio” ( in qualche caso per oltre dieci anni) degli incarichi, per dar modo di accrescere la torta. Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia, abbandonò la seduta, visto che i Ministri volevano negoziare le nomine senza altre presenze. Fu allora che si parlò di Foro boario degli incarichi.

Certo, per una parte non minoritaria, le nomine, pur sulla base di sinallagma tra il dare e l’avere dei partiti lottizzanti, riguardavano persone dotate di requisiti di capacità, professionalità, esperienza ( vi fu anche una infornata di professori voluta da Beniamino Andreatta ); ma il fatto che le decisioni fossero di marca partitica creava, non infrequentemente, un legame del nominato con il partito di appartenenza, vulnerando l’autonomia del banchiere. Si parlava, così, comunemente di banchieri democristiani, socialisti, etc. Banchieri con aggettivi, come non avrebbe mai voluto Luigi Einaudi.

Il sistema cominciò a saltare quando la banca pubblica incontrò difficoltà nel patrimonializzarsi (diversi istituti di diritto pubblico beneficiavano di stanziamenti a carico del bilancio dello Stato, progressivamente condizionato dai problemi dell’equilibrio dei conti). Si profilarono i primi casi di dissesto. Una riforma per via amministrativa promossa dalla Banca d’Italia non diede tutti i risultati sperati.

Fu necessario mettere allo studio la riforma legislativa della banca pubblica che portò alla legge Amato – Carli incentrata sullo scorporo dell’azienda bancaria Spa dalle fondazioni. Gli istituti pubblici si scindevano, dunque, tra queste ultime, detentrici del capitale della banca, ed Spa.

Inizia di qui la più recente storia delle fondazioni. Nel frattempo, un referendum aveva abrogato le norme sul potere del Cicr di disporre le nomine in questione. Ma soprattutto le direttive comunitarie avevano definitivamente sancito che la banca è una impresa. Ed erano state introdotte norme sulla esperienza e onorabilità del banchiere.

Gli istituti iniziarono a tuffarsi nel mare aperto della concorrenza in una situazione che agli inizi degli anni ’90 vedeva il sistema bancario ridotto a uno stato di agonia. Fu necessaria un’opera straordinaria di riorganizzazione, concentrazione e consolidamento per fare riprendere efficienza e competitività.

Privatizzazioni e liberalizzazioni, in un contesto che superava la cosiddetta amministrativizzazione del credito dei decenni precedenti, resero le lottizzazioni un reperto archeologico. Banca d’Italia e fondazioni furono artefici del rilancio del sistema.

Le fondazioni hanno amministrato le loro partecipazioni come investitori istituzionali, senza ingerirsi nel merito delle gestioni bancarie. Oggi c’è il rischio concreto, tuttavia, che si apra una fase nuova nei rapporti tra fondazioni e banche, con le prime esposte alle ingerenze lottizzatorie degli enti locali che si proiettano sulla governance delle seconde. Un regresso clamoroso, che si rifletterebbe sul ruolo di istituti bancari che hanno una configurazione globale.

Il tentativo di reinsediarsi in quello che fu soprattutto il mondo democristiano può essere stimolato, in alcuni partiti, dalla prospettiva di conseguire un radicamento forte che sviluppi poi consistenti utili sul piano politico e plasmi, in definitiva, la vita delle comunità locali, mentre si profila l’attuazione del federalismo fiscale.

Sarebbe un disegno illusorio, considerati lo spirito del tempo a livello globale, le dimensioni e l’operatività delle maggiori banche. Enorme è la distanza con l’epoca della lottizzazione partitica, che potrebbe ritornare solo come farsa, arrecando non pochi danni, innanzitutto al risparmio degli italiani.

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