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Impariamo dalla scuola tedesca “Merkel”

“A mali estremi, estremi rimedi”

I governi e le istituzioni devono indicare le modalità concrete per affrontare la crisi

di Angelo De Mattia - 20 febbraio 2009

Non è una sorta di conversione sulla via di Damasco la decisione del Governo tedesco di promuovere una legge “a termine” per consentire la nazionalizzazione di istituti bancari, pudicamente presentata come mirata alle “acquisizioni di salvataggio” e con la promessa (almeno in un caso) di riprivatizzare. Non è, certamente, la fine dell’economia sociale di mercato; né, tantomeno, l’affermazione di un’economia socialista. E neppure un tardo ritorno di fiamma per le tesi di Hilferding. Per la Germania, nonostante tutto ciò che di nefasto evocano nella storia del lontano passato, ma anche in quella più recente della Ddr, le parole espropriazione o nazionalizzazione, vale il principio “a mali estremi, estremi rimedi”, con l’assunzione dell’impegno nei confronti dei partner internazionali, da parte della Cancelliera Angela Merkel, di non lasciare fallire alcuna banca con un rischio sistemico.

Con questo comportamento, l’inflessibilità tedesca potrebbe fare scuola di duttilità alla nota malleabilità latina, ancora concentrata, nel caso dell’Italia, sui Tremonti bond, del cui regolamento si comincia a intravedere la realizzazione. In Germania, c’è la situazione di una banca in gravi difficoltà, l’Hypo Real Estate; poi, spira il vento del Centro e dell’Est europei, con la condizione grave di diversi Paesi. E – si sa – il principale interlocutore politico, istituzionale, economico di questi Stati è la Repubblica federale tedesca, con tutte le conseguenze sfavorevoli in questa fase che, al di là degli stessi rapporti di scambio, ne possono discendere.

Finanche l’insospettabile liberalconservatore Alan Greenspan – che molti considerano corresponsabile della crisi finanziaria – ha ingrossato la schiera dei sostenitori delle statizzazioni, dopo aver espresso un giudizio di insufficienza sul piano Obama, per la parte finanziaria. Ma, in Europa, una legge come quella tedesca – una volta approvata – passerà il vaglio della Commissione per i profili del libero mercato, della concorrenza e degli aiuti di Stato? Se prevale in quest’ultima – come, nella crisi, sarebbe doveroso – una visione pragmatica, è difficile che potranno essere eretti ostacoli a un provvedimento dal quale si potrebbe anche inferire che il Governo tedesco disponga di notizie e dati più preoccupanti di quanto sinora si sappia.

Ma il modello della nazionalizzazione – che per l’Italia evoca i provvedimenti adottati con la costituzione dell’Iri dopo la Grande Depressione e la crisi della banca mista degli iniziali anni Trenta - è diffusamente esportabile in altri Paesi europei come risposta ai casi di dissesto o di instabilità nel sistema creditizio e finanziario? Eppure, dotarsi degli strumenti legislativi per operazioni della specie non significa necessariamente un loro impiego in forme estese, insomma una sorta di politica delle nazionalizzazioni. Tuttavia, in un’analisi comparata delle diverse modalità di intervento pubblico nella crisi per affrontare e gestire i dissesti nonché impedire che l’instabilità diventi sistemica, la nazionalizzazione dovrebbe essere valutata non solo per i costi e i benefici – come la bad bank e forme similari – ma anche per quel che significa un ingresso dello Stato nella governance delle banche e per il rischio, soprattutto se l’uscita non avviene in tempi contenuti, della formazione di banche di Stato o – per usare un linguaggio meno aspro – pubbliche, nei confronti delle quali si manifesterà la tentazione di un utilizzo come strumenti di politica economica.

Ciò non esclude che una rigorosa valutazione degli oneri e dei vantaggi attesi possa portare a optare anche per il modello della nazionalizzazione. E, qui, si giunge al cuore del problema. La scelta della formula tecnico-giuridico-finanziaria dei salvataggi dovrebbe essere coordinata a livello europeo, dove per ora si muovono passi ancora incerti in questa direzione. Condizione preliminare è la conoscenza degli oneri degli interventi che, a sua volta, presuppone l’altra conoscenza, quella cioè dell’ammontare degli asset cattivi, ma anche della loro possibile valutazione: operazione oggi assolutamente non facile per la complessità dell’individuazione dei parametri. Proprio ieri il Commissario alla concorrenza Neelie Kroes ha affermato che bisogna obbligare le banche a rivelare il reale ammontare dei titoli tossici in loro possesso e, in tal senso, ha lanciato un appello.

E’, questo, un punto sul quale Mf sta insistendo da settimane. Se non si fa chiarezza su tale delicatissima questione, la definizione delle modalità del sostegno pubblico resta estremamente carente. Non esiste un modello universale o, comunque, idoneo a essere prescelto in astratto. Tuttavia, l’esigenza di “conoscere per deliberare” è tuttora insoddisfatta.

La Kroes ha poi aggiunto che la pulizia dei bilanci dagli assett deteriorati e tossici è necessaria ma non sufficiente, perchè occorre che i governi aumentino la trasparenza e sospingano i processi di ristrutturazione bancaria. Ben detto, anche se con qualche dubbio sull’intendimento relativo ai processi di ristrutturazione. Tuttavia, dalla Commissione sarebbe lecito attendersi, non tanto l’affermazione del carattere cruciale della conoscenza della situazione degli asset cattivi di cui si va comunque diffondendo la consapevolezza, quanto l’indicazione delle modalità concrete o dei poteri comunitari da attivare per fare piena luce in questo cruciale comparto.

I governi e le istituzioni, soprattutto internazionali, dovrebbero avvertire il dovere di non limitarsi alle affermazioni di principio, ma di indicare le modalità concrete, a loro avviso, per affrontare e risolvere questo difficile problema.

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