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Lo stato di decomposizione del governo italiano

A chi spetta la parte dello statista?

Ai problemi del Paese bisogna rispondere con precisi disegni politici

di Davide Giacalone - 24 novembre 2009

Il governo si trova in uno stato di progressiva decomposizione, dovuto ad una sottovalutazione delle condizioni oggettive dell’Italia, accompagnata da una sopravalutazione del truschinare politico. Si tende a credere che siano gli equilibri politici a determinare il corso delle cose e non il contrario. Il che è anche vero, quando la politica è forte, ma capita l’opposto, quando è fiacca e miope.

Non devono spaventare, o eccitare, gli scambi verbali fra esponenti della maggioranza e del governo. Ciascuno ha il proprio stile, ma non è questo un utile ed interessante argomento di discussione. Ciò che colpisce è che le scudisciate fischiano per aria, ma dopo che si sono abbattute il cavallo resta fermo. Ligneo. Alla durezza del linguaggio non sembra corrispondere alcuna conseguenza reale, come se si fosse paghi d’averlo detto e taluno abbia goduto ascoltando.

Il presidente della Camera ha scelto una platea di bambini per offrire loro una solidale parolaccia. Escluso che avesse uno scopo educativo, e posto che il problema del razzismo lo si solleva fra quanti non devono praticarlo, non fra quanti non dovrebbero subirlo, è evidente che stava sfruculiando dei suoi alleati.

Chi mai è razzista, in un Paese in cui siamo tutti buoni? C’era la destra, ariana e favorevole all’“Europa nazione”, che forse Fini ricorda, e c’è la Lega, che ne dice di variopinte. La prima è, giustamente, relegata nel museo delle ridicolaggini pericolose, la seconda non solo è al governo, ma il suo fondatore e capo ha dato, assieme a Fini, il proprio nome alla legge che regola l’immigrazione. Sia Fini che Bossi dicono che quella è una buona legge. Epiteti e sparate, pertanto, son buoni per conquistare un riflettore.

Fra domenica e lunedì è sembrato doversi festeggiare la riapertura di due scuole di pensiero, ispirata una a Quintino Sella e l’altra ad Amintore Fanfani, una per il rigorismo e la lesina, l’altra per il lassismo e la spesa in deficit. Sarebbe anche intrigante, se non fosse semplicemente fuori dal mondo: abbiamo un tale debito pubblico, accumulato negli anni e senza ulteriori spese anticongiunturali, che supporre imminente una stagione di grandi spese, in assenza d’innovazioni profonde, è impossibile. Ho letto l’intervista di Renato Brunetta (di cui, avverto, sono amico e collaboratore, pur restando diverso il nostro modo di vivere la politica), ma il passaggio spendaccione non ce l’ho trovato, anzi, ho letto che egli condivide le scelte di politica economica fin qui fatte, al punto che non si capisce perché altri abbiano voluto dire: erano dettate da Silvio Berlusconi (o lo fanno per indispettire il ministro dell’economia?).

Certo, che i rapporti con Giulio Tremonti non siano improntati alla continua ansia di darsi reciprocamente una mano era chiaro, ed i due non fanno nulla per nasconderlo, ma a noi non importa poi molto se si fanno le boccacce, né vogliamo essere chiamati a stabilire chi ha cominciato per primo. Neanche, però, facciamoci distrarre dalla sostanza.

Mettiamo che il governo riesca a fermare la decomposizione e che il Consiglio dei ministri non degeneri in un format, tipo: Isola dei focosi. Mettiamo (per pura ipotesi) che la legislatura vada avanti. Ci aspetta un 2010 con una leggera ripresa produttiva, inferiore a quella di altri Paesi, che non si accompagnerà a riassorbimento della disoccupazione.

La pressione fiscale resta elevatissima e lo sconto sull’acconto Irpef è una partita di raggiro. A questi problemi non si può rispondere né dicendo “non spenderemo un doblone e saremo rigorosi”, né “spenderemo tanto ed a casaccio”. Se sfondassimo i parametri del deficit il nostro debito comincerebbe a costarci maggiormente (e già ci strangola), ma se non muoviamo foglia salirà la febbre sociale. Sono quindici anni che cresciamo meno dei concorrenti, il che segnala cause strutturali.

A queste non possiamo opporre un: “in tempi di crisi non si fanno riforme” (quando, allora?). Ma neanche un gattopardismo per poveri di spirito. Insomma, se il governo dura occorre che abbia qualche cosa di convincente da dire, e non solo qualche cosa di colorito da dirsi.

Dalle pensioni al mercato del lavoro, dalla scuola alla spesa sanitaria, passando per la giustizia, cincischiando si prepara il peggio, restando immobili si verrà travolti, muovendosi alla cieca ci si schianta. E non basta che si faccia questa o quella cosa, né che si stanzino dei soldi affermando che da quelli discenderà più sviluppo e non più sperpero, perché è necessario che ciascuna azione, ciascuna spesa, ciascun cambiamento, e anche ciascuna conservazione, rispondano ad un’idea di futuro. Non alla paura di fare i conti con il presente. Si chiama politica, e consiste nel costruire il consenso attorno a modelli ed interessi, cercando di prevenire e non solo d’inseguire. Il consenso tutela la democrazia, e le idee di futuro evitano che il dibattito continui giù in cortile.

Pubblicato da Libero

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