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Un gigantesco “piano Marshall” anti-declino

200 miliardi per rilanciare l’Italia

Gli interventi necessari per uscire dalla crisi

di Enrico Cisnetto - 07 novembre 2008

Dopo aver accumulato negli ultimi 15 anni un gap di crescita di un punto di pil all’anno con Eurolandia e di 35 punti complessivi con gli Usa – pari a circa 150 e 350 miliardi di euro – finalmente siamo pari, accomunati in previsioni di recessione che per tutti si aggirano, per quest’anno e il prossimo, tra il -0,2% e il -0,6%. Bene, chi si accontenta gode. Peccato, però, che non appena l’emergenza sarà terminata, la zavorra dei nostri problemi strutturali irrisolti ci terrà ancorati alla “crescita zero”, mentre gli altri paesi torneranno a tassi di sviluppo superiori. A meno che non si riesca ad approfittare dell’emergenza per passare da una stagione di spesa pubblica corrente improduttiva ad una capace di arrestare il declino e dettare i tempi e i modi del rilancio del Paese, fatta sia da un piano di investimenti pubblici e pubblico-privati, sia da una manovra espansiva basata su un drastico ma selettivo ridimensionamento della pressione fiscale. Questo significa ridefinire un modello di sviluppo nell’ambito del processo di globalizzazione, e di conseguenza riattivare la politica industriale per indirizzare l’improcrastinabile cambiamento di pelle del nostro capitalismo.

Significa riconvertire lo stato sociale da welfare delle garanzie a quello delle opportunità, il che dovrà significare un vasto programma di privatizzazioni e liberalizzazioni di tutti i servizi alle imprese e di molti servizi alle persone, con obiettivi di sburocratizzazione dei processi e di modernizzazione degli strumenti. Significa reinventare totalmente un sistema formativo che oggi sforna solo disoccupati che non hanno né la cultura umanistica di un tempo né quella tecnico-scientifica che il capitalismo moderno richiede. Significa, infine, sormontare l’ormai atavico gap infrastrutturale, e non solo per colmare le lacune, ma soprattutto per porre le basi per una crescita economica mirata. Per esempio, se nell’Italia del futuro due asset fondamentali dovranno essere rappresentati, come io credo, da un turismo finalmente “industrializzato” e da un’attività di logistica che faccia dell’Italia l’hub dei rapporti commerciali tra Europa e Asia, ecco allora che il sistema autostradale, ferroviario, portuale e aeroportuale dovrà essere pensato in modo funzionale allo sviluppo di questi due business.

Ma quanti soldi ci vogliono per questo gigantesco “piano Marshall” anti-declino? E dove si possono trovare, se si vuole tener fermo il principio del risanamento della finanza pubblica? A mio giudizio la dotazione minima di cui bisogna disporre è di 200 miliardi, e quattro sono i bacini di spesa da cui ricavarli: previdenza, sanità, interessi sul debito, assetto istituzionale. Ma vediamo in dettaglio i quattro tipi di interventi che si propone di fare.

Previdenza. Occorre passare dall’epoca di “troppe pensioni, troppo basse”, a quella di “meno pensioni, ma più alte”. Il che si realizza con un doppio innalzamento dell’età di fine lavoro: uno obbligatorio a 65-67 anni e uno volontario e incentivato anche oltre. Difficile? Le ragioni della demografia e delle aspettative di vita militano a favore della riforma, ma occorre assumersi la responsabilità di spiegarlo agli italiani. Sanità. Occorre un piano per evitarne il default, che dovrebbe essere basato su un ritorno al sistema mutualistico, la cui realizzabilità comporterebbe necessariamente il ritorno dalle Regioni allo Stato di questa funzione. D’altra parte, è ancora possibile andare avanti con una modalità di spesa che in molti casi è totalmente fuori controllo, e con un livello di controllo politico – introdotto per legge, si badi bene – che produce una “malasanità” fatta di sprechi, inefficienze e premi alla mediocrità? Tagliare, commissariare, introdurre ticket è bene ma non basta, ci vuole una riforma radicale. Costo del debito. Su gli oltre 1650 miliardi di debito pubblico, il Tesoro paga interessi annui che si avvicinano ai 100 miliardi: già questo sarebbe un ottimo motivo per una sua riduzione una tantum dal 104% al 70% del pil. Se poi si aggiunge l’alta probabilità che i nostri partner europei ci chiedano un veloce rientro, allora se ne deduce che dovremmo cominciare a interrogarci non più sul se ma sul come intervenire. La proposta Guarino è ancora praticabile? Si possono vender singoli asset del patrimonio pubblico, specie immobiliare? Ci sono ambiti Ue nei quali trovare la soluzione? Mi aspetto dal ministro Tremonti la disponibilità almeno ad aprire un fronte di discussione.

Assetti istituzionali. Altro che federalismo, qui bisogna semplificare e ridurre i costi del decentramento. Dunque, via le 107 province (che costano 17 miliardi, di cui l’80% per auto-mantenimento), le 330 comunità montane, i 63 consorzi di bacino e molti degli altri enti di terzo e quarto grado, e riduzione a metà degli 8100 comuni e delle 20 regioni. Totale a regime: 100 miliardi. Che sommati con i risparmi delle altre tre voci porta ai 200 miliardi che ci servono. Il resto sono chiacchiere.

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